Giorgio Brenci, il ricordo di Matteo Tasso e Roberto Morrocchi

Una persona di poche parole, ma da una grande cuore.

Giorgio Brenci è stato uno dei personaggi chiave del basket senese. Scomparso lo scorso marzo, Giorgio ha lasciato un ricordo indelebile nelle persone che lo hanno conosciuto e che da lui sono stati allenati sui campi di pallacanestro.

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Pochi giorni fa il Costone ha inaugurato presso lo storico oratorio della Piaggia una targa commemorativa in suo onore e in onore di Don Vittorio Bonci, celebrati in un fine settimana dedicato alla loro memoria.

Noi di Sienapost vogliamo ricordare la figura di Giorgio Brenci, attraverso le parole di Matteo Tasso e Roberto Morrocchi, che ne hanno tracciato il ricordo di uomo, amico e professionista.

Il ricordo di Matteo Tasso

Ho voluto andarmela a vedere da solo, lontano dai forti momenti corali di emozione (giusti, belli e doverosi, ma non fanno per me) di quando è stata scoperta, la lapide che ricorda Don Vittorio Bonci, personaggio immenso del quale ho purtroppo solo fugaci ricordi, e il mio “compare” Giorgio Brenci. Ci definirono scherzosamente così, tanti anni fa, quando per un’emittente tv cittadina raccontavamo (o almeno provavamo a farlo) le imprese della Mens Sana dei bei tempi e che a lui, uomo di palestra che alla Mens Sana ne aveva viste e vissute tante in anni decisamente meno regali, riempiva gli occhi, oltre che il cuore. Giorgio se n’è andato a marzo e il Costone, va detto, è stata ancora una volta la società che meglio ha compreso quanto importante sia coltivare le proprie radici e farne testimonianza. Il discorso sarebbe complesso e non è questa la sede per dilungarsi, ma si tratta di un esempio da seguire anche altrove, soprattutto oggi che non esiste più la ricerca, ad ogni costo, del risultato e si possono lasciare aperte porte e finestre per mettere in piedi attività un tempo fuori radar, dalla fidelizzazione in termini finalmente familiari della propria “clientela” (leggi alla voce tifosi, ma anche atleti e famiglie del vivaio) alla salvaguardia del proprio patrimonio, costituito appunto anche dai ricordi. Il Giorgio Brenci che ricordo meglio, se parliamo della sua esperienza da capo-allenatore, è quello alla guida della Mens Sana nell’anno, il 1989, della sfumata promozione in serie A. Subentra all’amico e mentore Ezio Cardaioli come già ai tempi della Sapori, rigenerando con un basket più istintivo e con i suoi metodi (in allenamento, quando le cose non vanno secondo copione, manda tutti a correre su e giù per le tribune del palasport: quell’ “andate a fare le scale” rimbomba nelle orecchie di tutti, non fa differenza se ti chiami Omar Serravalli e hai 18 anni oppure sei Lorenzo Carraro e ne hai 35 con 7 mila punti segnati in serie A) una squadra che fino a quel momento viaggia a corrente alternata. Ingranano e vincono nove partite in fila, Giorgio e i suoi ragazzi che per questioni di sponsorizzazione indossano (si può dire?) un’orribile maglia rossa, ma perdono la decima, quella in casa contro Sassari che avrebbe permesso di contare sul fattore campo nei playoff: in A2, infatti, ci vanno i sardi e quando, una ventina di anni dopo, avemmo l’opportunità di rivedere assieme il vhs di quegli spareggi, disse non senza rammarico “Colpa mia, potevamo salire e sarebbero cambiate tante cose”. Altro che se sarebbero cambiate: basti solo pensare che, con Giorgio Brenci artefice della rinascita biancoverde, non ci sarebbe stata l’epopea di Dado Lombardi (e tutta la narrazione, fortemente affettiva, legata all’istrionico coach livornese, purtroppo andatosene anche lui da pochi mesi) e…d’accordo, con i se ed i ma non si fa la storia. Gliela feci rivedere un po’ a sorpresa, quella videocassetta, in diretta, una domenica mattina negli studi di Canale 3. Fu in tv, del resto, che ebbi la fortuna di conoscerlo a fondo e averlo come spalla, detto in maniera ortodossa commentatore tecnico, delle partite più belle di tutta la storia biancoverde. Assieme abbiamo raccontato sette degli otto scudetti (sia chiaro, #permesono8) della Mens Sana, un privilegio nel privilegio pur senza sentirsi bravi e affermati, tutt’altro: ho già scritto altrove di quando Giorgino, alla Mens Sana (dove era rimasto ad allenare i ragazzini) lo chiamavamo tutti così, arrivò in postazione sostituendo Cardaioli (evidentemente era destino, anche davanti a un microfono), e senza troppe mezze misure, alle quali del resto non era particolarmente affezionato, prese in mano la situazione. “Ascolta una cosa Matteo – mi disse -, non ho mai fatto una telecronaca, ma quella, tanto, la fai te. Io guardo ciò che succede in campo, se c’è da dire qualcosa prendo la parola, altrimenti vai avanti da solo”. Il problema in realtà fu togliergliela, la parola, perché Brenci ci prese gusto a dire la sua, con competenza (quella non gli mancava, of course) e con quel pizzico di “follia creativa” che lo faceva essere unico e inimitabile nello spiegare certe situazioni di gioco (la mitica “bilancia difensiva”, ad esempio), vivendo lui stesso una partita nella partita che lo portava talvolta a immedesimarsi nel pretendere, alzandosi e sbracciandosi, determinati atteggiamenti da chi era in campo, in casi estremi anche ad alzare la voce nei confronti di avversari e arbitri. Come dei nostri, del resto: avreste dovuto essere lì, nell’intervallo di una finale scudetto, e vedere la sua faccia mentre diceva “Perché nello spogliatoio nessuno dà una seggiolata a Baxter? Fa più danni della grandine!”). Se ormai è di dominio pubblico il “Cosa vuoi Bulleri? Ma falla finita Bulleri” (e molto altro) col quale espresse il proprio scarso feeling nei confronti dell’allora playmaker dell’Armani (l’audio di quella telecronaca, ovviamente, finì a Milano, dove non apprezzarono), sono meno note altre sue uscite estemporanee riferibili al centro della Snaidero Udine che aveva appena scaraventato per terra Lavrinovic (“Oh Jaacks, so falli! Arbitri, questo picchia come un fabbro ferraio”) o al play di Scafati, tale Smith, che aveva osservato minuziosamente per tutto il riscaldamento salvo poi spiegarne la conformazione fisica: “Ma avete visto che dita ha? Enormi, sembrano quelle del pizzaiolo”. Era un amico, Giorgio Brenci, anche se nella società di oggi può sembrare un assurdo parlare in termini di amicizia quando tra due persone ci sono quasi 40 anni di differenza. Ma lui coi ragazzi (vabbè, nel caso del sottoscritto diciamo “le persone più giovani di lui”) aveva sempre avuto a che fare, in palestra e anche fuori. E oltre ad essere un fantastico istruttore di basket, tutti possono confermarlo, era un esempio nel modo di comportarsi: quando gli ricordai che, in era preistorica, mi aveva sostanzialmente bocciato al  termine di una selezione per il settore giovanile del Costone, si mise a ridere ma poi si fece serio “Ho fatto un servizio alla pallacanestro – mi disse – ma anche alla tua crescita”. Tutto vero, Giorgio era uno di quelli che ti dicono le cose in faccia, lo faceva con chi allenava, grandi o piccini non era un problema suo (i suoi proverbiali cazziatoni per un mancato rientro in difesa si udivano fuori dal palasport), e non si peritava di spendere identica moneta con chi, in tribuna, si era magari convinto di avere in famiglia il LeBron James del futuro. Ah già, si parlava della lapide esposta nel Ricreatorio. È bella ed essenziale al tempo stesso, e a lui che certo non amava i riflettori (e che, ne sono convinto, senza false modestie avrebbe commentato “Il DonVi è stato di ben altro spessore rispetto al sottoscritto”) sarebbe piaciuta proprio per questo motivo. Sotto il nome Giorgio Brenci c’è scritto “sicuro riferimento di vita”. Miglior definizione non poteva esserci. Matteo Tasso

Il ricordo di Roberto Morrocchi

Il nome di Giorgio Brenci unitamente a quello di Don Vittorio Bonci resterà impresso ad imperitura memoria in una stele posta all’ingresso del Ricreatorio del Costone. Giorgio è stato per tutti noi, ragazzi del Ricreatorio fondato da Monsignor Nazzareno Orlandi, una guida sicura. Era il nostro allenatore e ci condusse in tre stagioni dalle giovanili alla serie C nazionale, allora la terza categoria dopo la massima serie e la serie B. Ma parlare di Giorgio solo in chiave tecnica non rende l’idea della sua grandezza e della sua umanità. Certo la “nidiata” del ’47, innervata da elementi del ’48 ed uno, il sottoscritto, nato nel ’49 costituì forse la squadra più completa in Italia alla metà dei favolosi anni “sessanta”. Era una squadra fortissima, forse la squadra giovanile più forte in Italia, superiore anche alle Milanesi, Romane, Livornesi, allora dominanti. Ma alle finali nazionali di categoria erano ammessi, in quegli anni, solo gli juniores delle squadre di serie A e non ci sono scudetti a provare quanto vado affermando sulla forza di quel Costone. Prego fidatevi di me…la squadra dei Ghezzi, Bernini, Boccini, Carli, Centini era la più forte e anche i Sani, i Valentini, i Governi, i Morrocchi erano in grado di far e la loro parte grazie alla pazienza e alla sapienza del coach di Vallepiatta che nel Ricreatorio si era formato come tecnico, dopo aver giocato nella Virtus, distinguendosi per le sue capacità atletiche che ne facevano un difensore d’acciaio. Brenci formerà poi con Ezio Cardaioli una coppia vincente nella Sapori che conquisterà la promozione in serie A il 19 maggio del 1973 battendo in drammatico spareggio la Brina Rieti di Gianfranco Lombardi. Cardaioli era una grandissimo artigiano della pallacanestro, uno stratega della difesa a zona che si trasformava ad un suo cenno in un pressing asfissiante a tutto campo. Brenci lo completava come fido assistente negli allenamenti settimanali e tenendo alto il volume di incitamenti e richiami, in panchina, a fianco dell’amico e come lui Selvaiolo nell’anima. Giorgio raccolse a metà stagione l’eredità di Cardaioli nel campionato di A2 che vedeva per la prima volta una coppia di stranieri, George Bucci ed Eric Fernsten, nel roster e riuscì a riportare la Sapori in A 1. Primo allenatore per una mezza stagione in A due e poi, raccogliendo ancora il testimone lasciato da Caradioli, sarà Lui a portare allo spareggio per la serie A la Mens Sana, caduta in serie B, lasciando però il passo a Sassari. Lasciata, poi, la ribalta delle serie A, diventò la colonna del settore giovanile della società biancoverde facendo crescere oltre la soglia dei settanta anni una miriade di minicestisti che, se non altro, almeno una dote l’avevano: sapevano palleggiare, passare e tirare di destro e sinistro. Insomma Giorgio che veniva, anche lui, dalla scuola del Professor Casini e di Don Perucatti, aveva spezzato loro il pane dei fondamentali. Chiudo ricordando la sua generosità e la sua umiltà. Per noi è stato un insegnante ed un educatore. E se siamo tutti noi diventati uomini per bene e con dei valori lo dobbiamo anche a Giorgio che lavorò spalla a spalla con l’indimenticabile Don Vittorio Bonci. Abbiamo avuto fortuna ad incontrare sulla nostra strada due personaggi così. Roberto Morrocchi

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