Il mancato posizionamento di un’opera come sintomo di una città che teme l’ambiguità. La riflessione di Pierluigi Piccini che interroga arte pubblica, immagini e cultura condivisa
Nel suo blog, Pierluigi Piccini ha pubblicato un intervento intitolato “Assistere il buio: una città che non guarda” .
La riflessione prende spunto dal caso del mancato posizionamento dell’opera dell’artista Francesco Carone all’interno del progetto “Assistere il buio”, che coinvolgeva diciassette lanterne dell’illuminazione pubblica di Siena, trasformate in elementi d’arte urbana grazie al contributo di altrettanti artisti italiani.
L’opera di Carone — due sagome nude, maschile e femminile, che scrutano il cielo attraverso un cannocchiale — non è mai stata installata nella sua sede prevista.
L’artista ha parlato esplicitamente di un’esclusione subita, esprimendo stupore e amarezza: il suo intento era poetico, quasi astronomico, e non provocatorio. Eppure la figura nuda, per quanto stilizzata, pare essere risultata ancora “scandalosa”. Da qui la decisione, non formalmente spiegata, di non procedere all’installazione.
È questo gesto, questa sottrazione silenziosa, che Piccini sceglie di interpretare in chiave politica e culturale.
La mancata esposizione dell’opera, a suo avviso, non rappresenta una semplice scelta organizzativa, ma il sintomo di una più profonda insicurezza. L’opera, scrive, “non urla, non impone: suggerisce”. E proprio per questo è diventata oggetto di esclusione. Non perché aggressiva, ma perché ambigua. Non perché disturbante, ma perché invita a uno sguardo più profondo, meno immediato.
Il corpo — osserva Piccini — da secoli fa parte dell’iconografia pubblica della città. Gli affreschi del Pellegrinaio, nel Quattrocento, rappresentavano senza remore i corpi malati, feriti, femminili, e li mettevano al centro di una visione collettiva della cura. Quei corpi non erano né nascosti né attenuati, ma strumenti attraverso cui si costruiva una cultura dello sguardo e della responsabilità.
Oggi invece, secondo Piccini, ci si ritrae da quel linguaggio. Si preferisce l’ornamento alla riflessione, la neutralità alla sfida.
È una tesi che merita attenzione. L’episodio che l’ha sollevata non riguarda solo una lanterna mancata: ci interroga sul ruolo dell’arte negli spazi pubblici contemporanei. Soprattutto nelle città medie, storiche, che oscillano spesso tra l’esigenza di conservazione e il timore dell’innovazione.
Il cannocchiale che guarda il cielo, elemento centrale dell’opera esclusa, diventa così un simbolo doppio. Da un lato, è l’invito ad alzare lo sguardo, ad andare oltre il visibile. Dall’altro, è anche ciò che oggi sembra difficile accettare: un gesto di ricerca.
La domanda, allora, resta aperta. Che tipo di arte può stare nello spazio pubblico di una città che si racconta colta, ma che esita di fronte a un nudo simbolico? E ancora: cosa rischiamo di perdere se smettiamo di confrontarci con ciò che non capiamo immediatamente?
Come non dare ragione alle conclusioni di Piccini: “più che rimuovere quel cannocchiale, dovremmo finalmente guardarci dentro. E attraverso”. Una frase che ha il tono dell’invito, e forse anche quello della diagnosi.