La meraviglia è il senso stesso dell’arte

Appassionata difesa del cencio assegnato il 4 luglio scorso alla Contrada Capitana dell’Onda

Ospitiamo oggi il pensiero di un amico, Andrea Mastrangelo, giornalista come me, che vuol ragionare di bellezza a prescindere dalla mano che l’ha creata. Parliamo del cencio, oggi nella chiesa della Contrada Capitana dell’Onda, dipinto da Giovanni Gasparro, applaudito a scena aperta nell’entrone, da noi indirettamente criticato nella rubrica #caffèdarte parlando di “Passioni in Campo”, la mostra dell’autore e di cui, sembra, si continuerà a discutere a lungo stante le recenti anticipazioni del CorrSiena e le notizie odierne di cronaca (dr).

Partiamo da un punto: piacere non è una colpa. Il cencio di Giovanni Gasparro rappresenta forse un unicum per il consenso ricevuto dai senesi, che lo hanno sentito proprio fin dal momento del suo disvelamento.

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C’è stato poco da dire: un cencio bellissimo quello dell’artista pugliese, non per ammissione della critica ufficiale ma per bocca di tutti i senesi andati ad ammirarlo in Provenzano e che con ancora maggior vigore vi hanno lanciato contro il proprio fazzoletto. Questa volta non solo scaramanzia ma anche la consapevolezza di essere davanti a un’opera d’arte destinata a impreziosire il museo di una contrada.

Da un lato il consenso popolare, dall’altro il non sempre facile rapporto degli artisti con la critica, soprattutto quando l’artista gode, come è accaduto in questo caso, dell’approvazione e della meraviglia (che resta sempre il senso stesso dell’arte) del destinatario vero di una tela, di una scultura, di un affresco.

Che non è tanto il committente, quanto qualsiasi persona che vi passi davanti, anche per caso. Il suo solo fermarsi a guardare, l’alzarsi del dito di un bambino a indicare l’immagine, la bocca che resta semiaperta, il parlottare del ragazzo con la ragazza: è quando questo accade che l’artista può dire di avere vinto, di avere centrato l’obiettivo.

Ed è proprio questo che è accaduto con il cencio di Gasparro. Dietro qualsiasi opera dell’intelletto possiamo individuare diversi livelli di lettura e di interpretazione: da chi vede in un quadro la semplice rappresentazione di una scena del vivere a chi vi avverte l’espressione densa di simboli di una realtà altra, di un pensiero che si esprime attraverso un linguaggio individuale intuibile ma quasi mai svelabile con certezza. Ma di queste considerazioni viene fatta tabula rasa dall’oooh… di meraviglia del viandante – come avrebbero detto i romantici dell’Ottocento – di fronte a un capolavoro prima ignoto e poi svelato.

Volendo dare un senso alle arti in generale, comprese quelle figurative, possiamo individuarlo nella capacità di comunicare a un mondo esterno, non a una ristretta cerchia di addetti ai lavori per i quali il parlare semplice non sempre è un valore.

E’ accaduto decenni fa con la musica erroneamente definita “alta” (la musica non è alta o bassa, semplicemente è o non è), quando si ruppe in modo severo il contatto fra chi la musica la fa e chi la ascolta, in una malintesa distanza fra il messaggio da comunicare e lo strumento di comunicazione.

Era come privare il pubblico degli ascoltatori del diritto di decidere cosa fosse bello e cosa no; anzi, di decidere cosa potesse piacere e cosa no. A distanza di tanto tempo, proprio il gusto dell’ascoltatore – sempre più avvertito e raffinato di quanto lo si voglia pensare – ha messo in cassaforte i capolavori al netto di appartenenze a scuole o avanguardie lasciando il resto al proprio destino.

Perciò mi sento in diritto di difendere il cencio di Gasparro, perché ho una motivazione fortissima per farlo: perché mi è piaciuto, molto.

Andrea Mastrangelo

Nella foto il drappellone di Giovanni Gasparro riprodotto da Andrea Lensini

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