Quel che di filosofico sta dietro la Pandemia

Caro direttore, sto seriamente prendendo in considerazione l’idea di divenire socio-autore del Siena Post. Basta che trovi il tempo di leggere tutti quei documenti che vuoi sottoscriva e basta tu non mi presenti come enogastronomo, o addestratore di cani da tartufo, o contradaiolo del Montone o altro. Sono tutti aspetti del mio essere, ma nessuno che mi racchiuda tutto.

Quel che mi piacerebbe – e tu nel tuo editoriale ce lo hai promesso –  è uno spazio di dibattito davvero vivo per parlare del nostro territorio che sai trovo angusto e come minimo lo faccio collimare con l’Antico Stato. Per esempio, oggi, rovistando tra le mie troppe carte ho ritrovato una riflessione di un anno fa avente ad oggetto la pandemia. E sempre di attualità e te la vorrei riproporre. Non mi schiero contro oppure a favore dei vaccini, ma sono decisamente nemico di questa tendenza moderna di mettere il cervello a riposo permanentemente. Te la propongo, e magari se ne discute con qualche amico che vuole commentare…

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È successo che dal mondo siamo passati al non mondo. Dalla quasi possibilità di scegliere, al dover solo conformarci alle regole.

Lo Stato che è il nostro proprietario in qualunque forma e in qualunque luogo si presenti e a cui demandiamo il potere-dominio di controllarci, ha fatto quello che può. “… vuolsi così colà dove si puote / ciò che si vuole, e più non dimandare” ecco, “puote-vuole” e “dimandare”, qui è il problema.

Ho visto gente contorcersi nel desiderio di giustificare decisioni, nel tentativo di spiegare, altri dubitare, altri ancora subire appartati nascosti nelle loro preoccupazioni del mondo di prima. Io posso solo testimoniare la mia esperienza.

Io non so cosa è successo. Non lo so. Ho visto nel giro di un giorno arrivare la tempesta, perdendo i miei adorati punti di riferimento, precipitando in un non vivere costellato di dubbi. Sì, dubbi. Quelli che tutti voi avete avuto e che non è il caso qui di pesticciare, già lo fanno per noi tv e compagnia virtuale. Mi sono però arrivate a folate ideuzze bislacche che voglio raccontarvi.

Questo virus, partito dalla Cina, si è tirato dietro un po’ di profumo orientale che mi ha fatto tornare a passati lontani studi universitari mai conclusi. Ricordandoli, mi è venuto spontaneo collegare ciò che mi pareva slegato e diverso.

Nel “territorio al centro del mondo”, così i cinesi chiamano la loro terra – “Zhung Guo” -, la burocrazia ha un ruolo davvero particolare; essa diviene lo specchio dell’ordine del divino. Mascherine, quarantena, rispetto della regola statale, rimandano a millenni di storia, danzando al ritmo della Hung Fang, la Grande Regola, rivelata al monarca Yu 2205 anni a.c.: ognuno si deve conformare all’ordine cosmico, attraverso ciò che il sovrano definisce giusto o sbagliato, se così, per la comunità sotto di lui, vi saranno longevità, ricchezza, pace, progresso nel bene, e una morte buona e serena.

La Hung Fang fu messa per scritto, anno più anno meno, verso il 1050 a.c. Nel 551 nasce nel nord della Cina K’ung fu tsu, Confucio, che riprende e rielabora a modo suo quell’antico testo: anche per lui, se il mondo degli uomini, attraverso i riti e la sua organizzazione, rispecchierà il mondo del cielo, si avrà una buona convivenza sociale. Ma mentre in quello c’è una morale trascendente che si rivela attraverso l’interferenza tra l’universo e gli oggetti anche inanimati del mondo, creando il desiderio del bene, in questo c’è soprattutto il desiderio politico di una totale specularità tra i due mondi.

In poche parole con Confucio si va in automatico: basta che riti, burocrati, ministri e sovrano si conformino alle regole cosmiche e tutto va a posto. Confucio una volta divenuto primo ministro nello Stato di Lu, all’età di 56 anni, ebbe problemi insuperabili appena dopo un mese dal suo mandato, con il sovrano che cadde in atteggiamenti non proprio confuciani lasciandosi corrompere da uno stato vicino invidioso che gli inviò ottanta danzatrici bellissime. Facile quindi capire la sua fiducia nella forma della regola più che negli uomini. E badate bene Lui credeva che l’uomo nascesse buono.

Un’amara delusione sfociata in una sorta di blindatura formale rituale della società. Lao Tsu che fu suo contemporaneo, anche se più vecchio, aveva altre idee: l’uomo deve assorbire contemplativamente ciò che è eterno, arrivando all’assenza di desideri consapevoli, attraverso una vita solitaria e senza coinvolgimenti sociali e politici. Questo, in estrema e massima sintesi, è Lao Tsu.

Ma la Cina si è plasmata più su Confucio, e non a caso Mao Tse-tung attraverso il marxismo, agganciando alla tradizione cinese confuciana una visione collettivistica rispecchiante un universo fatto di simmetrie gerarchiche non più divine ma politiche, è riuscito ad aver successo. Chiaramente la burocrazia è fondamentale in questo: l’individuo però va a farsi benedire in un formicaio di condizionamenti ideologici.

Il coronavirus scappando a gambe levate dallo Hubei è invece volato, ignaro dei mondi e delle storie degli uomini, in Occidente: nella terra del singolo dove prima di tutto c’è la libertà dell’individuo. Almeno sembra. Qui però non ha dimenticato la sua provenienza e si è vestito di un altro aroma speziato orientale: il sannyasa.

Il sannyasa è termine sanscrito che indica l’ultimo periodo di studio dell’uomo induista, quello cioè che lo dovrebbe preparare alla morte, attraverso privazioni e rinunce intollerabili per la mente di un occidentale. Al sannayasi, che prende il nome, come asceta induista, di sadhu, non è consentito che possedere un bastone e una ciotola per le elemosine; deve vivere isolato, non avere rapporti sociali, non partecipare in nessun modo al piacere, sesso compreso, niente alcol, e cibo solo per sopravvivere.

Ora mi sembra evidente che io non voglia dire che le restrizioni imposteci in questi giorni possano somigliare a questa condizione, ma non uso la parola “sicuramente”, perché ci sono contesti particolari che non me ne paiono così abissalmente lontani: pensate a chi in città deve convivere con persona affetta da patologie gravi mentali, o chi sta già prefigurandosi la fine della propria attività, magari dopo una vita di sacrifici per mantenerla…

Arrivato dove il sol tramonta il virus ha frammentato le risposte degli stati secondo costanti storiche e psicologiche nazionali per niente dimenticate, nonostante le belle pretese di una possibile univoca storia europea: sono sorte soluzioni diverse nella limitazione della libertà, privilegiando nel loro sorgere, luoghi comuni e ipocrisie nascoste sotto una cenere sottile di falsa unità monetaria.

Si è visto stati impedire che mascherine arrivassero dove dovevano, confiscandole; pantomime di profonda comprensione hanno nascosto invece egoismi di razza. Slanci canori dai terrazzi hanno allietato i più condizionabili e fatto incazzare i più seriosi, e da noi il quadro si è ancor più complicato.

Italia giovane o troppo vecchia, non ancora fatta o forse sfatta? Regioni l’une contro l’altre armate, politica scoppiata, senza un progetto senza un sentire comune, e parole come governo sprofondate in un “abisso doloroso”, apparati e interessi di partito diventati pesanti fardelli impossibili da rottamare.

Che fare? “Francia e Spagna l’importante è che se magna”?! La peste ha fatto tante stragi, ha distrutto vite di intere città, ma non è mai riuscita a distruggere i punti di riferimento della libertà dell’uomo occidentale. Anzi. Che facciamo? Ci facciamo mettere tutti l’anello al naso e le catene alle caviglie? C’è un unico modo per venirne fuori, ritrovare il bandolo della matassa della nostra storia!

  • Che dire, Carlo? Grazie perché di filosofia c’è sempre bisogno e no comment. Siamo travolti da questa garbata e colta disamina sui pericoli intellettuali della Pandemia. (D.R)

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