Purtroppo Sono 32 anni che Silvio Micheli ci ha lasciati. Chi era Silvio? Un personaggio importantissimo che ha contribuito alla storia di Viareggio ma che, in compagnia di molti altri purtroppo, la sua città, oggi candidata alla nomination di Capitale della Cultura, ha dimenticato.
Lo scrittore Silvio Micheli è l’unico viareggino che si è aggiudicato il Premio Letterario Viareggio nel dopoguerra per ben due volte: la prima per la saggistica con Pane duro nel 1946 e poi, successivamente, con il premio inchiesta giornalistica con L’Artiglio ha confessato.
Prima della guerra un versiliese aveva spopolato al Premio Letterario Viareggio: era Enrico Pea che nel dopoguerra fu direttore e animatore di quel l’edificio ora chiuso e sbarrato che fu il Nuovo Politeama, il teatro dove si cominciò proprio a valorizzare gli artisti locali e di cui si ricordano le rappresentazioni dei lavori di Pea e le opere di Giacomo Puccini. Il Premio Letterario è stato assegnato anche a Lorenzo Viani e poi a Tobino e ai versiliesi Cesare Garboli e a Manio Cancogni.
Nelle scuole della Versilia non si conosce Micheli, né le Istituzioni pubbliche e culturali fanno granché perché i suoi libri e i suoi racconti vengano letti e studiati dai ragazzi. Le istituzioni che dovrebbero avvicinare i cittadini alla conoscenza dei talenti del loro territorio non fanno quasi niente in questa direzione.
Silvio Micheli era amico di Leone Sbrana, un altro scrittore importante, anch’esso parimenti trascurato ed anche di Renato Santini, pittore di prima grandezza con il quale Silvio trascorse le giornate dell’adolescenza e della gioventù.
Non si conoscono neppure le scelte di vita di Silvio che ad una certa fase si unì alle formazioni partigiane e combatté contro i nazifascisti in prima linea. Probabilmente quella consigliera comunale di Massarosa, capogruppo di Fratelli d’Italia, che si è rifiutata di leggere il nome di un deportato durante una celebrazione della Giornata della Memoria, non conosceva lo scrittore e nemmeno quello che accadde in Italia e in Versilia: dalle leggi raziali alla fine della guerra, prima che gli americani riuscissero a mettere le tende.
Silvio Micheli era molto modesto, schivo, non abituato alle lodi sperticate, anzi impacciatissimo nelle varie occasioni pubbliche: così fu anche, come ci racconta direttamente, durante la cerimonia di proclamazione dei vincitori, quando fu chiamato sul palco per ricevere il premio.
L’anno successivo fu la volta del premio per la narrativa assegnato ad Antonio Gramsci con le sue “Lettere dal carcere”. Pavese scoprì quel giovane scrittore viareggino: gli piacque subito lo stile comprensibile, scevro da ridondanze, secco ma pieno di umanità, ben inserito nel solco neorealistico che in quegli anni caratterizzava la vita artistica e culturale.
Per Pavese il romanzo di Micheli rappresentava un’esperienza narrativa innovativa che svecchiava i condizionamenti letterari con un linguaggio nuovo e intatto. Italo Calvino scrisse che Pane duro rappresentava uno dei primi tentativi della nostra letteratura di costruire un “romanzo di fabbrica” sul modello della letteratura sovietica: cosa non riuscita secondo lo scrittore ma comunque un’opera nuova per “vigore, stile e sincerità d’ispirazione”.
C’era un’umanità nei racconti di Micheli che partiva proprio dalle cose semplici, dalla vita stentata e difficile di quei tempi segnati, però, dalla ricchezza dei rapporti tra le persone.
Micheli si iscrisse e militò nel Partito Comunista fu animatore di un dibattito culturale che attorno alla rivista da lui fondata nel dopoguerra, Darsena Nuova, ebbe illustri collaboratori tra cui Cesare Pavese, Vasco Pratolini, Alberto Moravia, Natalia Ginzburg.
Pubblicista collaborò con l’Unità, Vie Nuove, il Mondo, il Pioniere. Era un giornalista eccezionale e a lui si devono numerosi articoli di viaggio raccolti nel volume Mongolia e alcune riflessioni e spunti di discussione sulla Resistenza pubblicate in Giorni di fuoco. Soprattutto era uno scrittore comunista, schierato con i gli umili, con quella classe operaia individuata come la classe levatrice della storia e colonna portante di un progetto di società più giusta, libera ed egualitaria.
Pane duro e il successivo lavoro, Tutta la verità, furono tradotti con grande successo in Unione Sovietica e in numerosi paesi dell’Est. Come sostenne Aldo Belli in un ricordo di Micheli sulle pagine de La Nazione, all’indomani della sua scomparsa nel 1990, Pavese dovette studiare le terminologie del mare e della navigazione per la traduzione del Moby Dick e, molto probabilmente proprio servendosi della grande conoscenza dell’argomento dello scrittore viareggino.
A Micheli si devono infatti numerose pubblicazioni dedicate alla storia della marineria locale come appunto l’Artiglio ha confessato, Capitani dell’Ultima vela, Una famiglia viareggina nei mari del mondo, Gli aratori del mare, La storia dei corsari buoni. Io lo ricordo quando alle riunioni del partito e a quelle della Commissione Cultura della Federazione, di cui io ero responsabile a metà degli anni 70, dopo aver fumato una vecchia nazionale che immancabilmente inseriva nel suo inseparabile bocchino nero ed aver ascoltato con interesse, prendeva la parola: non era un grande oratore ma i suoi interventi erano chiari, precisi, comprensibili anche ai giovani ed erano sempre collegati al vivere comune, alle esigenze della gente, ai lavoratori, a quelle Darsene punto di riferimento e di rappresentanza fondamentale per il Pci. Nella Darsena c’era infatti l’altra città: quella del lavoro e della fatica, delle abilità e delle professionalità, della cultura popolare, dell’antifascismo.
Lo ricordo, ancora, con Sergio Breschi e con Giuseppe Antonini al lavoro nell’Anpi e poi animatore e direttore di Televersilia. Con la rubrica Carte in tavola contribuì al più ampio e approfondito confronto e discussione sui principali problemi di Viareggio e della Versilia, ad una attività di diffusione delle conoscenze storiche e della cultura locale. Fu spesso giudice nelle giurie del Carnevale di cui amava rievocarne le origini che appartenevano al mare e al mondo del lavoro: “…A quel tempo il carro del carnevale nasceva odoroso di ragia e pece come un bastimento, nello stesso cantiere, a colpi d’ascia e a colpi di mazzetta…. Un colpo d’ascia e una carezza a palmo aperto perché la mano potesse sfiorare il disegno, perché l’occhio potesse seguirne le linee: come a bordo. Marinai e calafati, sbozzatori e carpentieri, qualche imbianchino segretamente iniziato all’arte del pittore o per dir meglio alla decorazione, e scozzellai e intagliatori; erano questi, ciascuno a modo suo, a dare l’opera dopo il travaglio giornaliero a bordo o nei cantieri”.
Sarebbe importante se la Capitale della cultura non dimenticasse ed anzi sostenesse con qualche risorsa- tra le tante che vengono utilizzate, molte volte non sempre con il giusto sale della terra- un progetto per diffondere e far conoscere i personaggi locali che hanno tenuto alto il nome della Città, le loro opere, il loro pensiero e il contributo dato allo sviluppo delle nostre terre. Se questo sforzo fosse coordinato con gli altri comuni, il patrimonio da valorizzare sarebbe sicuramente più ampio e positivo. Mi auguro che tutto ciò possa realizzarsi e che non si disperda un’altra parte importante delle nostre radici. In questo progetto dovrebbe rientrare il tentativo di recuperare l’ampio archivio documentale e di scritti inediti che la famiglia donò ad una importante istituzione storico-culturale con sede a Roma.
Niclo Vitelli
ALCUNE DICHIARAZIONI di Silvio Micheli, rilasciate in epoche successive, in ricordo del Premio per la saggistica nel 1946
Qua firma l’autore, gridavano al microfono. Anch’io mi alzai sulla punta dei piedi e rimasi impacciatissimo quando Repaci mi trascinò per un braccio dietro al tavolo del libraio. Tra le cinquecento copie del mio Pane Duro parevo un bottegaio che dà a credenza, una volta segnato il nome e cognome. Questo durò fino all’una. Alle due fui invitato a un tavolo e alle tre mi girava la testa. La guazza cadde alle quattro. Alle cinque si notavano già gli alberi del giorno…. Sui tavoli, nelle poltrone e per terra, le copie del libro che avevo firmete. In un’aiuola ne raccolsi tre o quattro come crisantemi e le ditribui, fuori dal royal, ai primi che incontrai. Due spazzini e un operaio che mi dissero grazie. Il Premio può diventare un portatore sano di malattie: La sua assegnazione al mio Pane duro nell’immediato dopoguerra, fu per me, una sorta di rovina.
Quel libro era nato nei ritagli di tempo dal 40 al 42 dopo le quotidiane ore di ufficio. Struggenti furori sfogavo in quelle sudate paginette. Esercitavo allora la mia professione, disegnatore progettista in un grande complesso industriale aeronautico. Amavo quel lavoro che mi dava soddisfazioni e quattrini, e la possibilità di una prestigiosa carriera. Pane duro, una volta scritto lo inviai a Einaudi e fu accolto. Con lusinghiere parole da Cesare Pavese: “il suo romanzo è dei più che spezza ogni vincolo letterario tradizionale…” Di rimando a certe mie richieste, pavese nella sua del 25 Novembre del 46 mi metteva in guardia: “Bada-diceva- scrivere non è un mestiere, ma un ozio e non si può viverci. A meno di vendersi, ma allora cambia stile e diventa Liala…” Il 20 Marzo 47 mi esortava ancora: “…non lo sai che tu sei al mondo per raccontare e per il resto per la fame, la sete, l’astinenza, la mala fine? Non lo sai? Te lo dice Pavese, il tuo Cristoforo Colombo”. Trentatré anni son trascorsi da allora: io e il Viareggio continuiamo a vivere. Vivere è scrivere. Nel senso che scrivere è vivere l’unico modo che lo scrittore possa vivere. Va bene?”
Silvio Micheli
(Le foto sono state tratte dai profili pubblici di Fb, nella foto copertina Silvio Micheli ritratto sa Serafino Beconi)