Come ti chiami? Riccardo Lorenzetti. Quanti anni hai? 56. Che lavoro fai? Insegnante, da quattro anni. Per trentaquattro, però, sono stato in fornace. Sei sposato? Lo ero. Figli? Due. Sei ricco o povero? Povero, ovviamente. Dove stai? Da sempre a Petroio. Perché ti intendi d’arte e teatro? Non me ne intendo affatto. Semplicemente, ci sono stati registi e attori bravi che un bel giorno hanno ritenuto interessanti alcune cose che avevo scritto, e le hanno riadattate sul palcoscenico. Tirandoci fuori spettacoli che non avrei mai pensato, e che hanno ottenuto un successo sorprendente. Cosa ti ha reso orgoglioso, finora? Sono molto orgoglioso di Gaia e Jacopo, i miei figli. Hanno qualità, nella vita sapranno cavarsela. Poi sono orgoglioso del mio lavoro, e dei disegnini di Crujff e dei giocatori della Grande Olanda che fanno i miei bambini. Che non l’hanno mai visti, e devono immaginarseli. Ma il bello è ovviamente quello. Cosa non rifaresti? Non perderei più tanto tempo in cose inutili, che alla fine non portano da nessuna parte. Ma non sono originale, come mi ero prefisso di essere… Perchè almeno l’80% dei tuoi intervistati ha risposto nello stesso modo.
C’è chi dice che sei un separato alla nascita dallo scomparso attore Libero Di Rienzo. Che ne pensi? Dieci, quindici chili fa, forse sì. Ma all’epoca andavo forte anche come Presidente del Chievo. Adesso non più… Igor Tudor, che era a Vico Alto la settimana scorsa a ritirare un premio, mi ha dato uno spunto nuovo: “Sei il fratello piccolo del Tata Martino”, ha detto. Martino è un allenatore cazzutissimo, uno di quei tipi sudamericani che starebbero bene in una storia di Garcia Marquez, quindi Tudor mi ha fatto felice. Da giovane mi ero piccato di somigliare a Eric Cantona: ricordo che a TeleIdea facemmo una sigla dove cercavo di imitarlo: mi tiravo su il bavero e dicevo: “Au revoir”. Pensa te…
Che musica ascolti? Dipende dai periodi. Adesso, per esempio, mi è presa la fissa di quei “complessi” italiani degli anni ‘70: i Collage, il Giardino dei Semplici, gli Homo Sapiens. Quelli che erano buoni per la spiaggia in estate e per i festini delle medie in inverno. Poi, mi tengo aggiornato sui nuovi, tanto per non farmi prendere in castagna dai miei ragazzi. Quindi Irama, Baby K, Benji e Fede, Rkomi, Sangiovanni…
I libri lo so che li leggi, quale l’ultimo? Un saggio sulla guerra civile spagnola. Noiosissimo, peraltro. Sono arrivato in fondo impegnandomi molto, ma non se lo meritava. Quando ti sei disinnamorato del socialismo? Del socialismo inteso come una certa idea di sinistra, non mi sono mai disamorato. Dell’uso che del socialismo ne hanno fatto alcuni politici cominciai a dubitarne quando, una trentina e passa di anni fa, invitarono Giuliano Amato a Sinalunga. E per accoglierlo degnamente, gli avevano piazzato dietro una riproduzione gigantesca del famoso quadro di Pellizza da Volpedo. Cercai, tra i partecipanti a quella “conferenza” qualcuno che appartenesse se non al “quarto”, almeno al “terzo stato”, ma rimasi deluso. Amato parlò davanti a una platea di professionisti milionari, che non contemplava alcun operaio, alcun contadino e alcuno di quelli che lavorano “sotto padrone”. C’era il mio dentista, che aveva appena comprato la Lancia Thema 8.32 – macchina pazzesca, all’epoca, con motore Ferrari – che mi strizzò l’occhio: “Questo Craxi è trent’anni avanti rispetto agli altri”. Fai un sacco di cose col tu’ fratello: è per convinzione o competizione? Per convinzione. Perché Filippo è, nel campo della comunicazione, il più bravo che c’è in giro.
Una mitragliatina di domande per far dire a Riccardo Lorenzetti, qualcosa di più a chi non lo conosce. Lui dice che non è così interessante da meritarsi un’intervista. Probabilmente equivale a dire che non è interessato, ma in pratica l’ho sfidato a singolar tenzone e quindi ha finito per accettarla. E’ un roccioso e un po’ gli è piaciuto il taglio dell’intervista a Simone Bernini – Orgoglioso profeta del demenziale – SienaPost -, un personaggio che vorrebbe aver frequentato.
Ci conosciamo da quasi quarant’anni con Riccardo, abbiamo fatto mestieri simili. Ha un modo di scrivere che in età giovanile era epico, strada facendo è divenuto lirico. Un grande del giornalismo sportivo gli disse che lui nella sua vita aveva fatto un solo sbaglio: nascere in Valgelata invece che accanto a San Siro. Anche se lui avrebbe preferito il Ferraris, perché lui il blucerchiato ce l’ha nel cuore: dalla Samp al Petroio.
E’ un po’ che puntiamo a lui. L’altro giorno però se ne uscito con un post sul Palio, perché per quanto i senesi tentino di respingere nel contado quelli che – sempre meno – Siena continuano a guardarla con amore e ammirazione, la sua senesità resta forte. E forte è stato il suo dispiacere: “Il Palio dell’altro ieri ci ha lasciato, in bocca, un retrogusto aspro – ha scritto -. Insieme all’immagine di una città stanca, ripiegata in sé stessa, che ha steso una specie di drappo nero gonfio di tensione e preoccupazione sopra una festa che invece si vorrebbe coloratissima. E che in virtù di quei colori è diventata la festa di piazza più bella e sentita d’Italia, e forse del mondo. (…) Vent’anni fa, il Palio del 2 luglio 2022 lo avrebbero celebrato con tutti i crismi, l’ideale ritorno alla vita di tutta una comunità dopo due anni di silenzio. Invece è venuto fuori una specie di aborto: otto cavalli, che poi sono diventati sette, poi sei. Una partenza chiaramente irregolare data per buona per non tirare troppo tardi, come se il Mossiere avesse voluto dire: “Ovvia, su… Togliamoci ‘sto dente prima possibile”. Ma il Palio non è un dente che duole, o un peso dal quale ci si libera… E non è nemmeno il sospiro di sollievo che si tira perché la LAV non ha emesso comunicati, l’Ente Protezione Animali non ha rilasciato dichiarazioni, la Brambilla non è apparsa al telegiornale delle otto e non ci sono state reazioni da parte di Italia Nostra, della FAO, del Club Alpino, dell’ACI o della FederNuoto”.
“(…) Il Palio – continua – non è “liberarsi da un peso perché tutto è andato bene”. E’ un orologio biologico che batte da mille anni, è un’emozione, è un sentimento talmente unico che in un mondo così secolarizzato non sembra nemmeno possibile possa esistere: una macchina del tempo dove ancora coesistono il Te Deum in latino – cantato anche dai ragazzi di quindici anni, che lo sanno a memoria – e la bestemmia più atroce. Il bacio e il bercio, la carezza e il cazzotto. Il mutuo soccorso e il canto collettivo… Quello che dice per forza e per amore”.
Chiarissimo sul Palio, ma con te vorremmo parlare del rapporto di Siena con il suo territorio. Qualche anno fa un’operetta goliardica – che è anche saggezza popolare – declamò che non c’è senese che non abbia almeno il babbo di Rosia o la nonna di Trequanda – che per inciso è il mio caso -, noi iniziamo mettendo un altro brano del tuo post, ma ci interessa che continui la tua suggestione, perché quando smetterete di guardare a Siena, come altri territori hanno fatto, per la città saranno guai…
La risposta già scritta: “Non è sempre facile voler bene a Siena. Riesce difficile anche a noi che, eppure, “stiamo in fondo alla campagna”. E abbiamo verso il capoluogo una reverenza un po’ selvatica: quell’impasto di rispetto-devozione-soggezione che i mezzadri di un tempo nutrivano per il Fattore, o per il “Sor Marchese”. Non è facile perché Siena è città che tiene a mantenere le distanze. Anche – e soprattutto – con il suo territorio. Con quel fare talvolta sprezzante di chi, nei secoli, è sempre bastato a sé stesso, e si è abituato a collocare l’interlocutore in una posizione subalterna: “Da quando, nel 1100, il mondo spacciava per dessert un intruglio di farina nera e lardo, mentre a Siena inventavano il panforte, e i ricciarelli”, mi disse una volta il professor Balestracci. Ed è lì, mi parve di capire, che è nata la Civitas”.
La risposta aggiunta: “Che i Senesi se la tirino troppo è vero, ahimè. Ma è roba che viene da lontano… E’ qualcosa che hanno nel sangue e che gli ha tramandato il nonno del nonno del nonno; è l’orgoglio per aver tratto una città insignificante dall’isolamento al quale era destinata, e averne fatto, nel Medioevo, l’equivalente delle odierne New York, Parigi o Londra. Una specie di record mondiale, perché nessun’altra città può vantare un primato del genere… Né Perugia, né Arezzo, né Lucca, né Viterbo, che eppure sono stati centri importantissimi. E’ una sindrome “da accerchiamento” che ha finito per acuire certe tendenze isolazioniste, e tendere fino al punto massimo quell’orgoglio, e quell’identità quasi “tribale”, che in città è fortissima, e senza la quale non esisterebbero le contrade. Ma io, debbo ammettere, con i Senesi mi sono sempre trovato a meraviglia… Perché ho l’impressione che i Senesi abbiano sviluppato, nei secoli, una specie di sesto senso, di “radar”, che gli consente – prima che ad altri – di percepire il valore di chi hanno davanti. E quando hanno capito che tieni al tuo orgoglio, alla tua identità, alle tue tradizioni, e per quelle sei disposto a batterti, ti percepiscono come un fratello, anche se non sei dei loro. Per questo ho sempre avvertito un grande rispetto: ho l’impressione che riconoscano – e apprezzino – quelli che non tradiscono. Quelli, insomma, che non scappano, non indietreggiano e rimangono al loro fianco quando c’è da fronteggiare l’avversario che ti sta arrivando addosso. Sono queste le monete che hanno corso, e che si spendono, in una città come Siena. O almeno, nella Siena che ho conosciuto io”.
“Vedere tutti questi scienziati – continua -, che si svegliano la mattina – generalmente molto tardi – poi salgono sul pulpito e dichiarano di voler cancellare dalla faccia della terra questa cosa qui, che sta lì da mille anni, e che ha insegnato a campare a centinaia di generazioni, beh… Questo mi fa letteralmente uscire di testa. Sono metodi da talebani, quelli. E siccome a Siena voglio bene, mi sono sentito in dovere di scriverlo… Auspicando fortissimamente che possano essere quell’altri, a sparire dalla circolazione”.
“C’è un episodio – ricorda – che per me è illuminante, e che risale a quarant’anni fa, quando ero un ragazzo, e mi capitò di svolgere alcuni mesi di servizio militare al Distretto che stava a Santa Chiara, proprio sopra Porta Pispini. E ricordo una mattinata di fine aprile, apparentemente anonima e insignificante dove, però, si avvertiva una stranissima fibrillazione… Un’eccitazione degli animi che non riuscivo a cogliere, ma che stava lì, sospesa, a mezzo metro da terra, e che pervadeva tutto l’ambiente. L’arcano me lo spiegò più tardi il mio amico Riccardo Cerpi – quello che poi è diventato anche Priore della Civetta -: “Oggi, gira il Montone”, mi disse, tutto emozionato. E lì finii di convincermi che il segreto di Siena è un orologio che scandisce il tempo in maniera diversa, e che la rende – anche in questo – poderosamente un’eccezione, rispetto al resto del mondo. Fu un tratto che mi colpì parecchio… il celebre “berebennennè” che echeggiava per le strade non era, per quei miei amici, un semplice rullo di tamburo. Era un linguaggio arcaico, quasi esoterico. Una specie di messaggio in codice: e per avere le chiavi d’accesso di quel codice, dovevi far parte di una comunità, e riconoscersi nelle sue tradizioni. In quel senso, il messaggio era che finiva l’inverno. Di lì a poco sarebbe giunta la bella stagione, e quindi l’ora del Palio, che di quell’orologio è il grande nord. Io non lo sapevo. Ma vedere le facce felici dei Senesi, che fossero della Lupa, della Torre o dell’Aquila, al suono dei tamburi del Montone, fu una specie di corto circuito. Poi…”
A questo punto ricordo che quando Riccardo ed io lavoravamo insieme, eravamo su opposti fronti. Lui a chiedere spazio di scrittura, io a tagliare negli angusti formati di un quotidiano. Comunque, approfittando della vastità del web, stavolta, io all’ennesimo ricordo non ci rinuncio proprio, quindi…
“Poi – aggiunge -, ce ne sarebbe un altro, di episodi. E me lo raccontò una sera il povero Giorgio Pagliani, alla Società La Pania, sempre in quegli anni lì… Successe che, una sera, rientrando in contrada, dalle parti di Via Roma, Giorgio – che tutti conoscevano come “Tamburo” – si ritrovò davanti a una ventina di montonaioli incazzati neri. Erano anni avventurati, quelli: Nicchio e Montone se le promettevano abbastanza sistematicamente, e non c’era Palio dove quella rivalità così accesa non raggiungesse il diapason, sfociando in solenni scazzottate. “Tamburo” si ritrovò quella notte, dunque, stretto in trappola dall’orda nemica. Cercò di darsi un tono, da “soldato”, poi giocò l’ultima carta: “Si, però voi siete in venti, e io sono da solo”. Quelli del Montone si guardarono intorno, imbarazzati. Fino a quando, uno di quelli più “influenti”, ruppe gli indugi: “Ha ragione”. “Si, ma allora che si fa?”, chiesero tutti gli altri, al colmo dell’impazienza. “Allora… Si va a beve”, concluse quello più autorevole. Così, raggiunsero il bar più vicino, dove a Tamburo offrirono senza indugi un bicchiere di vino. Poi, la sera seguente Nicchio e Montone si affrontarono per davvero, come Cristo comanda. Trenta contro trenta, stavolta, a sancire che la “tregua” era finita. E fu una rissa epica, tra gente che solo la sera precedente aveva bevuto insieme, in omaggio ad un codice d’onore non scritto, ma proprio per quello ancora più vincolante. Se le dettero così tante che qualcuno di quei contradaioli si ritrovò addirittura al Pronto Soccorso… Compreso Tamburo che, al ricordo, scoppiò in una risata irrefrenabile. Mentre io mi voltai dall’altra parte. Per non far vedere a Giorgio che quel suo racconto mi aveva commosso”.
Riccardo parliamo del tuo interesse per lo sport che ti porta a un abbozzo di catalogazione su Wikipedia (https://it.wikipedia.org/wiki/Riccardo_Lorenzetti), a un blog in cui sul momento hai perso di vista la necessità di aggiornamento (https://riccardolorenzettiblog.wordpress.com/), a sei libri scritti sul calcio, a un impegno a fianco di un’emittente chiancianese e al ruolo di addetto stampa del Giesse. Ti senti strabordante o felice?
“Mi sento abbastanza appagato, anche se di libri “sportivi” non ho più voglia di scriverne, e forse sarà il caso di dedicarsi a una letteratura di un altro tipo – ammesso che ne sia capace -. Poi, c’è il mio attuale mestiere di insegnante, che ha una fama sinistra, ma non è quello che si vorrebbe far apparire: nel senso che quando finisco l’orario scolastico mi siedo davanti al computer, e preparo la lezione del giorno dopo. Così, succede anche di tirare le una, le due di notte, ma intanto abbino la matematica, o l’italiano, alla storia del Grande Torino, o di Fausto Coppi. Oppure Jesse Owens e anche Mennea alle Olimpiadi di Mosca 1980. Quando insegnavo in Valdarno, mi capitò una classe di diciassette bambini, e non mi parve il vero: ogni venerdì “correvamo” il Palio, con domande di storia, di scienze, di geografia e di cultura generale. E al primo che arrivava al “bandierino” toccava un sacchetto di caramelle e cioccolatini. Era un’ottima classe, con un paio di bambine veramente notevoli. Infatti, vincevano quasi sempre Selva, o Chiocciola”.
Parliamo di calcio senese. Ogni squadra ha deciso di essere satellite di una più grossa. Questo basta a far sopravvivere il movimento, nel suo complesso?
“Ho scritto un sacco di storie sul calcio senese, in un libro che ha avuto un bellissimo successo e che si chiama “Un’impresa impossibile” (https://www.amazon.it/Unimpresa-impossibile-grandi-storie-piccolo/dp/8832230569). Vi ho raccontato piccole leggende come la “Coppa Tempora” , squadroni leggendari, come il Foiano degli anni ’70, o il San Quirico del ’96, e personaggi incredibili, come Don Firmando Bari, che inventò la Coppa Brenna. Il calcio dilettanti sta vivendo, adesso, uno dei suoi tanti momenti di trasformazione. Tu ed io ci siamo conosciuti anche in virtù di quello – visto che di calcio locale me ne occupavo anche trenta-quarant’anni fa – e rispetto ad allora il movimento ha perduto molto del pubblico, e di quel seguito, che ne aveva fatto, dal dopoguerra fino agli anni ottanta, un fenomeno di costume. Poi, il calcio professionistico ha dichiarato guerra, sfruttando la televisione per fidelizzare, e mettere sul divano, tutto quel tipo di pubblico che, fino allora, aveva seguito la squadra locale al campo sportivo, magari con la radiolina incollata all’orecchio. E quel pubblico, una volta accomodatosi sul divano, non si è più rialzato. Oggi il calcio dilettanti potrebbe riappropriarsi di quel pubblico, approfittando per esempio dei Social Network, e di tante altre forme di comunicazione che offre la tecnologia. Ma questo è un discorso che non vale solo per il calcio, e che ci porterebbe fin troppo lontano”.
“Parliamo invece di identità, e di tradizioni – continua -, che è il tema che stiamo trattando. E di come anche una squadra di pallone costituisse – fino a trenta, quarant’anni fa – una specie di fiore all’occhiello di una comunità. Come seguirla, alla domenica pomeriggio, fosse una specie di “cittadinanza attiva”, se non addirittura un punto d’onore: e come una vittoria ti procurava orgoglio, al pari di una bella esibizione della banda musicale, di una festa ben organizzata, di una sala da ballo ben tenuta e di tutte quelle cose che miglioravano la qualità della vita di una cittadina, accrescendone contemporaneamente il prestigio agli occhi dei vicini. Stiamo parlando di un mondo dove non esisteva la televisione – così come la concepiamo adesso – ed anche il concetto di mobilità non era quello attuale, dove ogni scusa è buona per il uikkend nel B&B, o per una giornata a Ikea: la vita si svolgeva esclusivamente all’interno del paese, ed era giocoforza “inventarsela” giorno per giorno, impegnandosi a fondo per renderla bella ed emozionante. Poi, è ovvio che nel concetto più ingenuo di “identità” poteva rientrare anche il concetto ancestrale di “segnare il territorio”: ed era il motivo che ispirava quella sensazione di violenza che avvertivi, a pelle, in molti paesi. Luoghi che diventavano tristemente famosi per risse da Far-west, per squalifiche a vita, invasioni di campo e per tutti quegli atteggiamenti che poco avevano a che fare con il fair-play e molto con il codice penale. Ricordo benissimo quel periodo, e in quel senso non ne serbo nessunissima nostalgia. Riconoscendo, però, la valenza “popolare” di qualcosa che aveva il potere di “accendere” le persone: e fatalmente si portava dietro tutti gli istinti che una passione può produrre. Oggi il Far-west si è spostato nei campionati giovanili, ma non per una questione di passione… Semplicemente, ci si picchia tra genitori, sulle tribune, per difendere l’onore del proprio figliolo. E quindi, di noi stessi. E anche questo è un segno dei tempi”.
S’invecchia Riccardo. Quelli cui ci siamo ispirati spariscono, sempre più velocemente. Hai scritto belle storie su personaggi di paese che oggi sono scomparsi. Ti va di far mente locale sulle assenze che più ti hanno colpito, e perché?
“Il mondo del quale scrivo, e che magari riesce ad emozionare nelle pagine di un libro, o sul palcoscenico di un teatro, è una proiezione lontana, ormai. Quando vado in paese mi sembra di vivere dentro un effetto “Langoliers”, quella specie di “pac-man” inventato da Stephen King che azzera il passato. Mi rendo conto che un mondo, per come l’ho conosciuto, è definitivamente tramontato: siamo sempre di meno, e sempre più indaffarati. Si esce poco di casa, non si frequenta il bar, o la piazza – che di una comunità è il cuore pulsante – spesso si fa fatica a salutare il dirimpettaio al quale, una volta, lasciavi in custodia persino le chiavi di casa. Quando si vive in posti come questi, ovvio che “identità”, “appartenenza”, “orgoglio” diventano parole abbastanza astratte, e concetti difficili da recuperare”.
“Tuttavia – continua -, io vedo come il mondo abbia una gran “fame” di provincia: osservo come il turista che scende a Pienza, o a Montepulciano, non si accontenti più della chiesa medievale o dell’affresco del cinquecento, ma cerchi piuttosto in quella provincia un riscontro emotivo: qualcosa che sappia emozionarlo, fosse anche una cena in piazza o le quattro chiacchiere scambiate al negozio di alimentari. E mi rendo conto di come quell’atmosfera, quell’idea di mondo da assaporare, assomiglia abbastanza da vicino al paese che abbiamo vissuto noi, quando eravamo piccoli”.
Scrivi anche storie sui siti che la comunità perde per i latifondi, gli obbrobri urbanistici, le contingenze, le normative avverse. Di recente, hai parlato di Bagnacci, un altro sito termale ricoperto dopo l’Acquaborra. Ci regali una tua suggestione?
“Quella di Bagnacci, effettivamente, è una storia che mi ha fatto male al cuore. E non solo a me, perché sono bastate tre, quattro fotografie su facebook per scatenare la rabbia, e l’amarezza di chi quei luoghi – che sono a tutti gli effetti i nostri “luoghi dell’anima” – li ha frequentati, li ha vissuti, e vi ha legato ricordi che sono piccole fiabe. Non vado ad intrigarmi sulle responsabilità di chi ha compiuto quello scempio… Sulla vicenda ho ascoltato cento campane, ed ognuna suona diversa dalle altre: dico solo che un luogo come i Bagnacci appartiene al patrimonio “emotivo”, ancor prima che materiale, di un territorio, e di una comunità. Bagnacci è – o meglio, era – un fontone nel bel mezzo di quel fenomenale territorio che costeggia Lucignanello Bandini e la Val d’Asso, lambisce Cosona e la Valdorcia, e fa l’occhiolino a Sant’Anna in Camprena, e alla non lontanissima Pienza. E quel fontone, dove sgorgava una preziosissima acqua termale, era l’esclusivo punto di riferimento dell’estate per tutta quella teoria di paesi che si trovavano tra Torrenieri e Trequanda. Bagnacci era il sinonimo della bella stagione, in un mondo dove nessuno si permetteva lo week-end al mare. Per noi ragazzi, l’idea eccitante del “bagno al fiume” alla Tom Sawyer, e l’eccitazione che ti teneva sveglio tutta la notte, come succede adesso per Gardaland. Per i più grandi, Bagnacci era il surrogato del mare… O, almeno, l’illusione della piscina: in un’epoca dove le piscine non esistevano o quasi, e la prima della zona la inaugurarono al Dancing Apogeo, a Bettolle, alla fine degli anni ‘70. Ma stiamo parlando di qualcosa che riguarda un mondo tramontato. Ovvio che gli attuali parametri di sicurezza non consentirebbero nemmeno lontanamente una fruizione del luogo come accadeva fino a quarant’anni fa, ma quando ho visto che la vasca dei Bagnacci si era ridotta ad una specie di cratere lunare, beh… Confesso che mi è venuta una stretta al cuore”.
Parliamo di comunicazione. È buona quella che stanno realizzando i territori senesi? Fanno passare un messaggio corretto?
“Bisogna capire che tipo di comunicazione. E soprattutto, quanto è sensibile il pubblico alla comunicazione che gli viene offerta… Prendi l’informazione sportiva, per esempio. Ricordo il Corriere di Siena degli anni ottanta, per esempio. Che il lunedì aveva una foliazione addirittura spropositata, e poi una grande quantità di contenuti spalmata durante la settimana. Le rubriche del martedì, gli approfondimenti del giovedì, qua e là l’intervista al personaggio, ogni tanto addirittura un’inchiesta… Oggi quel tipo di servizio è pressoché sparito: i giornali escono si e no con due-tre pagine, dove c’è (poco) spazio giusto per il Siena, l’Arezzo, il Poggibonsi e il Montevarchi. Le radio sono praticamente estinte, o quasi, e le televisioni danno l’impressione di fare il compitino da sei meno meno – a parte Idea-Plus, che però è una mosca bianca -. Sul web c’è l’esperimento dei ragazzi di “Radio Epicentro” che trovo interessante, ma che non dà mai l’impressione di decollare, e la lodevole pagina di Siena Sport, che è molto attenta alle notizie attuali di calciomercato, per esempio, ma assomiglia un po’ troppo ad un convivio tra amici. L’informazione politica, beh… Non mi pare essere in testa alle preferenze della gente. C’è qualche ufficio stampa più solerte di altri, che magari non fa mancare i comunicati sulle iniziative di quel Comune o di quell’Assessorato, ma sarei curioso di vedere i dati d’ascolto dei cosiddetti programmi di approfondimento, anche di quelli ben fatti: come la Diretta di Borsi, o l’Agenda Rossa di Francesca Campanelli, per esempio. E poi c’è l’informazione culturale. Ma quella ho l’impressione che sbiadisca nella semplice reclame di ciò che propone il territorio… Sabato, mercatino dell’usato a Colle Val d’Elsa, domenica, sagra dei pastrignocchi a Cetona. Stand gastronomici aperti dalle ore 19. A volte mi viene il dubbio che al pubblico basti quello”.
E scusa… Dato che ci ha stimolato l’amico del demenziale, tocchiamo anche il linguaggio. Oggi non si scrive su un giornale ma sui social. Cos’è che fa presa e ti rende Riccardo Lorenzetti ?
“Insomma… Dopo tanti anni , e una indubbia visibilità guadagnata sul campo, può sicuramente darsi che il mio nome possa essere più conosciuto di altri, ma non voglio affibbiarmi referenze che non ho. Dubito che qualcuno apra Facebook, o Instagram, la mattina, per leggere un mio pezzo, o un mio punto di vista… Quelle sono cose che si riservano a Francesco Merlo, a Michele Serra o a Pietrangelo Buttafuoco, dipende dai gusti. Io, come vedi, scrivo volentieri di pallone… Ma mi sono accorto che, anche lì, mi occupo pochissimo di Messi, di Neymar o di Cristiano Ronaldo. E parecchio di Pierino Prati e di Haller. Di Maraschi e di Palanca, quello che a Catanzaro segnava gol direttamente da calcio d’angolo. E penso di non essere del tutto normale”.