Ma com’è che una persona è pinza?

Ricordi della domenica in famiglia raccontati con gli occhi di un bimbo fiero della sua disubbidienza

Eravamo “casa, chiesa e famiglia”. Raccontare la domenica è un’altra piccola storia per capire/ricordare di come eravamo negli anni 60’ .

La domenica siamo tutti a casa, il pranzo è un rito istituzionalmente costituito, ma prima c’è la messa. Mi hanno messo il vestito buono, non posso fare nulla se non girellare lontano da qualunque cosa possa anche lontanamente avere l’idea di sporcarmi. È ovvio che sono le cose che mi sporcano… non è mai colpa mia! Imbalsamato in questo temporaneo sarcofago attendo l’ora della liberazione.

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La piccola chiesa rupestre dove si riunisce la comunità ha una forma semplice, una casa un po’ allungata, come la potrebbe disegnare un bambino; si distingue dagli altri edifici per il piccolo campanile a vela, formato da un semplice muro che sorregge la campana.

La gente entra, le donne si dispongono su un lato, gli uomini dall’altro, io posso scegliere… Non sono ancora catalogato dice la mamma. Gli abitanti del borgo, sono tutti qui: gli operai della fornace, i contadini, i bottegai e gli artigiani, la chiesa è gremita, il prete dice la messa in latino, io non capisco e mi chiedo perché tutti all’improvviso dicono cose senza senso, ma tant’è…

La mamma ogni volta che parlo mi fa gli occhiacci, allora mi giro a guardare le donne, sono tutte vestite di nero, comprese le calze e il foulard di pizzo appoggiato sulla testa, la mamma ha un foulard colorato e spicca tra tutte.

Il fioretto è finito, così lo chiama il prete, posso correre fuori, come un cavallo impazzito galoppo fino al cancello di casa, lì nel mezzo al piazzale è parcheggiata una splendida Lancia Flavia, nocciola con le cromature lucide a specchio, gioisco, è arrivato lo zio Baffo e con lui la zia Filo e la zia Mariola.

La zia Mariola ha fatto con me la quarantena del morbillo, perdendo la voce a leggermi novelle, la adoro come una seconda mamma, lei è la zia pinza, non sposata, a me fa ridere il termine pinzo, lo usa Marina per gli angoli dei lenzuoli e sono sempre più di uno, come fa una persona ad essere pinzo, un mistero.

Il pranzo è finito, il babbo e gli zii si mettono sotto gli ombrosi tigli a giocare a carte, fanno il chilo dicono loro, li sento ridere di qualsiasi cosa, io vengo spedito a letto, il pomeriggio devo riposare, attendo che la mamma scenda le scale e mi alzo, mi piazzo dietro gli scuri della cucina, posso vederli e sentirli, sono molto fiero della mia disubbidienza.

Dopo un po’ mi presento, ho dormito abbastanza dico, bene bravo risponde il babbo, vai da Primo a comprarti una coca cola, corro, scavalco il muro che divide la proprietà del nonno dal piazzale del distributore e là, sullo sfondo, il frigo rosso bombato con la tipica scritta che campeggia nel centro, situato proprio davanti al casotto dove fanno bella mostra di sé le lattine d’olio, l’acqua distillata per le batterie e il liquido di raffreddamento per i motori.

Primo è l’inserviente alla pompa, arriva al mattino e va via alla sera, lo vedo passare ogni giorno con la giomella del pranzo, gli porgo i soldi e lui mi prende la sinuosa bottiglia, ghiacciata, con la brina che cola, la infila nell’asola incavata sul fronte del frigorifero e la stappa, una bruna spuma ne esce, mi porge la bottiglia e una cannuccia, bevo piano seduto con le gambe penzoloni dal muro, da dove è possibile vedere in lontananza la grande quercia, è il limite del campo del nonno, il limite del mondo conosciuto, oltre, come direbbe il prete, “Hic sunt Leones”.

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