Quasi mai le cose sono chiare quando si tratta di definire il grado di consenso reciproco nei rapporti tra individui. Soprattutto se si sono consumati dei rapporti intimi.
Un punto di partenza però è chiaro: bisogna prendere sempre sul serio – fino ad evidenza contraria – la denuncia della parte soccombente. Anche i sassi hanno capito che non è mai facile per alcuno denunciare una violenza subìta; soprattutto poi, se è stata ad opera di un gruppo. Vale in casi di stupro, ma anche di bullismo.
Sono comunque sempre brutte storie, anche perché sollecitano tante attenzioni e solleticano tanti pruriti. L’esigenza cronachistica e la supposta incidenza della particolare gravità pubblica non sono una panacea per condurre all’individuazione dei rei e delle vittime, né dovrebbe rilevare la particolare notorietà di alcuno dei protagonisti. Attenzioni e pruriti rendono il lavoro degli inquirenti non facile per le attenzioni che devono riservare a tutti.
Inutile negarlo, è chiaro che vittime e carnefici non sono la stessa cosa e nessuno può metterli sullo stesso piano. Il fatto che erano insieme prima non può mai giustificare i comportamenti successivi e i fatti del dopo.
Tra consenso e sopruso il confine è quasi invisibile; anche perché il primo può essere sopravvenuto ed è sempre rilevante. Ma c’è. Un semplice si, anziché un no li divide. Poca cosa? Ma pesante come un macigno.
E’ come se una porta spazio-tempo si aprisse o restasse chiusa. Cambia la vita. Ma non certamente in meglio. Per nessuno. Soprattutto quando, e se, ci si ostina a negare l’evidenza. Già, perché nella vita può capitare di fare cose spregevoli. Rendersi conto che sono stati errori imperdonabili consente di assegnargli il posto che meritano. Esiste oggi un profilo di giustizia riparatrice e inizia sempre con una totale dichiarazione di verità.