Ricordo degli anni ruggenti dell’Hop Frog, esempio di impegno e cultura

Niclo Vitelli (1954) vive a Conca di Massarosa ed è stato Segretario della Federazione del Pci della Versilia, Consigliere Comunale e Assessore a Viareggio, Presidente del Festival Pucciniano negli anni Ottanta e ha fatto parte successivamente del Consiglio di Indirizzo della Fondazione Festival Puccini di Torre del Lago. Tra i suoi altri incarichi quello  di dirigente alle Relazioni Industriali al Cantiere Navale Sec di Viareggio, Responsabile del CTL di Legacoop nella Provincia di Lucca, Responsabile di Lega Pesca Toscana, delle politiche concertative di Legacoop Toscana fino al Luglio 2019. Attualmente ricopre l’incarico di Presidente del Comitato dei Garanti di Legacoop. Nel 1995 con Pezzini Editore ha pubblicato il Libro “C’eravamo tanto amati” e nel Luglio del 2016 con Edizioni Clichy-Firenze Leonardo Edizioni ha pubblicato il libro “Un bel dì vedremo Il Festival di Giacomo Puccini. Cronaca di un’incompiuta”.

– E’ uscito il suo libro Hop Frog Futuro anteriore: perché era così importante il locale di Viareggio?

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“Il locale è stato importante: alla fine degli anni 60 come discoteca caratterizzata da musica raffinata e d’avanguardia, quella preferita dai giovani di allora che erano portatori di valori nuovi e rivoluzionari, che contestavano e mettevano in discussione la scuola e la società. Dopo l’accordo tra il privato Piero Torri che gestiva l’Hop Frog sala da ballo e l’Arci il locale passa nelle mani di un circolo associativo. Si alternava la discoteca a spettacoli di generi che la commercializzazione culturale di quei tempi teneva in un angolo, non promuoveva né facilitava: il cabaret, il teatro del mimo e della pantomima, le canzoni popolari e di protesta, il jazz. E’ stato un locale importante dove hanno potuto fare le prime esperienze e farsi conoscere ed apprezzare da un pubblico colto e ampio numerosi artisti. Il Circuito regionale degli artisti costituito dall’Arci Toscana con il contributo di Alessandro Beneventi e Athina Cenci consentì a giovani artisti di inserirsi in una programmazione che aveva come palcoscenici alcuni locali come l’Hop Frog, le case del Popolo e i circoli Arci, le feste popolari e di partito. Moltissimi di loro diverranno famosi, molti altri hanno continuato la loro attività a livelli meno appariscenti ma altrettanto importanti nelle periferie, nella formazione di nuove esperienze, nella costituzione di gruppi di base. Poi c’era una necessità visto che Viareggio ma anche altre realtà sembrano dimenticare il loro passato, incuranti che documenti, tracce e memorie si volatizzino per sempre.  Piace di più affidarsi ad una bolsa e melensa retorica sui fasti del passato… proprio per dimenticare il duro lascito di questa società ancora impregnata di contraddizioni, di povertà, di solitudini, di odi, chiusure, di paure e steccati. L’Hop Frog ha rappresentato un punto di aggregazione per giovani e per numerosi gruppi di amici, proponendo in aggiunta al ballo spettacoli controcorrente, di denuncia, di impegno sociale e politico, di un nuovo modo di fare cultura, arte e spettacolo fuori dai circuiti commerciali di allora. E’ stato uno tra i 5 o 6 locali nazionali di riferimento in cui si promuoveva, si faceva conoscere e si rappresentavano nuovi generi, nuovi stili e un nuovi percorsi artistici”.

  • Chi erano i frequentatori e gli artisti dell’Hop Frog?

“All’Hop Frog  non c’erano i ragazzi bene o i turisti come accadeva negli altri locali versiliesi. Nei tre stanzoni a ferro di cavallo, uno truccato da teatro con una pedana in legno a far da sipario ogni sera l’artista di turno si esibiva con il pubblico – duecento e più persone – accalcato tutt’intorno e competente, rumoroso, pronto alla contestazione, all’interruzione, dialogante in altri casi o entusiasticamente coinvolto. Tornano in mente le parole di Carlo Verdone che all’Hop Frog si esibì per la prima volta fuori da Roma. Gli tremavano le gambe perché era noto cosa lo potesse aspettare in quel locale! C’era un’ansia da prestazione, ha dichiarato qualche altro artista che ha voluto contribuire al mio racconto. Era però un locale dove gli artisti potevano esprimersi liberamente, fuori dalle regole rigide e compunte, fuori dalla censura che agiva negli altri locali: ci si poteva togliere il reggipetto, si poteva bestemmiare, si potevano irridere i politici, i ministri del culto, i grandi signori senza che nessuno bloccasse lo spettacolo… a parte il Sindaco comunista di Pontedera che interruppe Benigni mentre stava parlando del mestruo delle donne fiorentine lanciato contro Giorgio Almirante impedendone il comizio… anche se poi il comico finì per fare lo stesso lo spettacolo trasformandolo in una riunione cultural-politica. Marco Colubro, viareggino doc, lì fece le sue prime esperienze di artista, inventandosi i giochini per le feste degli stabilimenti balneari o il Come dite Cabaret a Viareggio? Noi si dice Massimo Boldi con la pentola a pressione… E la grande mima internazionale Nola Rae?  Si esibì in quella piccola sala dove le attrezzature e gli impianti erano tutto un fai da te e poi tenne un corso di formazione per i gruppi di base… e tanti altri che il libro ricorda e di cui ne pubblica le memorie. I locali versiliesi erano numerosissimi, si facevano un’accanita concorrenza tra di loro. Ad una certa fase il ballo fu integrato con gli spettacoli. Si poteva scegliere passando in pochi chilometri da uno all’altro nelle calde notti versiliesi. A settembre però si spegnevano le luci e l’inverno faceva sprofondare i versiliesi nella più triste solitudine. Tutto chiuso. Qualche bagliore con il Carnevale ma poi tutti al lavoro da mattina a sera e dopo cena incollati a quei televisori giganteschi in bianco e nero. “Bisognava combattere il grigio inverno viareggino “ come ricorda Alessandro Benvenuti. L’Hop Frog invece c’era proprio nei grigi inverni: con la musica, con lo spettacolo, con il divertimento. Potevi passare una serata diversa, conoscendo un genere di spettacolo nuovo, di aggregazione e di conoscenza fuori dai consueti cliché. E lo potevi fare perché i prezzi erano contenuti, popolari come si diceva allora e alla portata delle tasche di un giovane”.

  • La musica e la politica erano componenti importanti nella vita dei giovani?

“La musica era una parte integrante della nuova realtà giovanile, di quella generazione in movimento che non si accontentava più di quello che passava il convento. La politica era impegno prioritario e si praticava in ogni momento: a scuola contestando i metodi e l’organizzazione autoritaria, al bar, al Circolo, a teatro, al cinema, in famiglia con aspre discussioni sulle scelte da fare, sui valori e sulle libertà. Forse era troppo ma era impegno, sacrificio, scelte, partecipazione. Ora la politica è assente e quella che c’è è impregnata di interessi personali; i valori vengono citati come litanie e confinati in un cloud ma non guidano più scelte, atti, comportamenti. Si pensa solo se un’azione darà più voti, a come continuare a fare il parlamentare o il Sindaco… allora i pensieri erano altri: ai lavoratori, alla costruzione di una società diversa a partire dal proprio quartiere, dalla propria scuola, dalla strada in cui si abitava. La musica, era una parte di quest’impegno, così come il teatro. Tutto quanto necessario per trasformarsi da spettatore passivo a soggetto attivo di un cambiamento che spesso non aveva una definizione precisa, un contorno chiaro ma allora tutto questo sembrava indispensabile per costruirsi un futuro. E c’era la reciprocità, l’ascolto, la comprensione, la discussione accesa, il dialogo che non si fermava a messaggi cifrati, a un mi piace, ad un simbolino che dice tutto ma non dice nulla. Il jazz ha costituito un impegno del tutto particolare del locale. Considerata per molto tempo dalla politica e dal senso comune una musica di negri viene ripresa e rivalutata proprio tra gli anni sessanta e settanta, e all’Hop si rappresenta sia la tradizione che i nuovi stili, chiamando i maggiori e più importanti jazzisti italiani, europei e americani ad esibirsi e fare formazione con le stesse modalità degli altri spettacoli.  Nei locali versiliesi il jazz comincia a far capolino, ti ricordo che nel 1968 Lionel Hampton viene scritturato da Sanremo per far riascoltare le 24 canzoni in gara con il suo vibrafono. Lo struttura commerciale comincia ad inserire il genere nei propri circuiti e i locali non si vergognano più a far esibire un artista o una banda jazz che invece costituisce un elemento di richiamo e di qualificazione della proposta. Di più: con le strutture regionali dell’Arci e grazie all’Associazione Centro Studi Toscano di Musica Jazz si gettano le basi per una attività diffusa sul territorio. All’Hop Frog si costituisce un gruppo di giovani che contribuirà in maniera determinante alla gestione e alla direzione del locale. E da lì sono passati nomi importantissimi come Gil Evans, Chet Baker, Enrico Rava, Bill Dixon, Billy Harper, Enrico Pierannunzi,  Duke Jordan e moltissimi altri ancora. E come per altri generi non c’era solo lo spettacolo ma anche studio, formazione e approfondimento. Anche in questo caso l’Hop Frog fu un locale innovativo e alternativo al tempo stesso e sicuramente divenne il locale più qualificato e di riferimento per il jazz durante gli ultimi anni 70 e fino a metà anni 80”.

  • Ma cosa resta oggi di questa esperienza e perché resuscitare un passato così lontano?

“Oggi la connessione ha rivoluzionato tutti i rapporti tra la società, la vita e l’organizzazione culturale. Può sembrare strano ma ci sono però analogie tra la situazione di allora e quella di oggi: analogie che possono consentirci di conoscere quell’esperienza e trarne una ancora utile lezione. Dopo anni di turbo capitalismo finanziario e di una poderosa innovazione tecnologica la società non è migliorata, non ha risolto le vecchie contraddizioni ma anzi ne ha prodotte di nuove e di più esplosive che convivono con le precedenti. E’ aumentata la povertà, le differenze territoriali e tra paesi, c’è solitudine, inquietudine, un malessere a volte evidente a volte nascosto che porta all’isolamento, alla chiusura, alla paura, all’odio e alla cattiveria. Ma oggi come allora c’è una oggettiva esigenza di cambiamento che si nasconde nel magma liquido della società, in un rumore disorganico e spesso contraddittorio, in una mancanza di prospettive che per un giovane è davvero mortificante. Oggi come a metà degli anni 70 si pone il problema di cosa fare di un enorme patrimonio di strutture – Circoli e case del Popolo che in Toscana ad esempio sono oltre 1200 – costruite con l’impegno di operai, lavoratori popolazioni locali per il loro svago e divertimento, per la loro formazione scolastica, per l’educazione delle proprie famiglie, che rischiano di chiudere i battenti. Sono state considerate nella pandemia meno che un bar o un locale commerciale, si sono penalizzate imponendone la chiusura e si continuano a penalizzarle. Ma come? In una società come quella attuale bisognerebbe attivare forme di sostegno e di finanziamento per consentire a questi presidi di socialità di ritornare attivi e di rinnovarsi per consentire di connettersi, ovvero di utilizzare le nuove tecnologie per promuovere una nuova leva di artisti, a servizio e integrazione degli spettacoli dal vivo, di educazione, di integrazione, di formazione. Una attività che possa mettere queste strutture a servizio delle comunità, dei quartieri, dei rioni, dei paesi per dare prospettive di lavoro nuove, per fare cultura e per ricostruire una fisionomia moderna del divertimento e delle svago, adeguata e all’altezza delle domande e delle necessità di parti sempre più rilevanti di giovani e di popolazione”.

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