Marco Parlangeli: “Si vede che dovevo provare anche questa: il cencio vinto in contumacia”
Ringraziamo l’amico Marco Parlangeli che abbiamo scoperto e stuzzicato lontano da Siena mentre Vallerozzi traboccava di libidine. Gli abbiamo chiesto righe di cuore e passione. E, a onor del vero, non abbiamo fatto molta fatica a convincerlo di scrivere per SienaPost (dr).
Nonostante gli anni trascorsi da ramingo fuori Siena, ero sempre riuscito – quelle poche volte che mi era capitato – a vedere la Lupa vittoriosa a Siena. A parte la prima volta nel ‘73, avevo 13 anni, quando la notte (tardi) del 2 luglio il mio povero babbo venne a recuperarmi davanti alle stanze di Contrada, dopo che le damigiane di rosso comparse magicamente avevano contribuito a rendere i ricordi di quella notte magica un po’ nebulosi.
E poi nell’89. Quell’anno lavoravo a Ravenna, e avevo organizzato tutto per bene: Palio in piazza e giubilo fino a mattina con gli amici di sempre; poi una rapida doccia e via in macchina che alle otto e mezzo dovevo entrare a lavoro.
È seguita una lunga, infinita serie di anni bui -dal punto di vista contradaiolo -, durante i quali a un certo punto mi ero rassegnato a non veder più la Lupina prima al bandierino. Anno dopo anno, Palio dopo Palio, a vincere erano sempre gli altri, con qualche sporadica ma dolorosa purga nei primi anni del secolo. Neanche mi ricordavo più com’era vincere il Palio, il ricordo si perdeva nelle nebbie dei decenni.
Poi nel 2016 – ormai un po’ avanti con gli anni, andare in Piazza non me la sentivo – col mitico ingegnere Raffaello capitò di vedere la corsa da una precisa seggiolina in Società, quasi in fondo alla sala del megaschermo vicino al finestrone. Da allora, ovviamente, quella seggiolina non l’abbiamo più mollata, e devo dire che ha fatto egregiamente il suo lavoro: due volte quell’anno e poi ancora due anni dopo.
Ecco, quei tre Palii me li sono goduti davvero, sono riuscito a restare anche i giorni successivi per il giro a vittoria, i cenini e tutto il resto. Specie il primo del 2 Luglio 2016, quello dell’addio alla cuffia, fu un’emozione talmente forte che neanche pareva vero. La sera non volevo andare a letto, tanto mi convinsi che era tutto un sogno che sarebbe svanito al risveglio. E invece era tutto vero, come mi confermò il capitano (e priore) vittorioso Lele, invitandomi a crederci.
Poi il cappotto, poi due anni dopo ancora, e sempre presente al ringraziamento e Te Deum in Provenzano o al Duomo. Gioia piena, goduta e vissuta in tutti i momenti.
Si dice che una Contrada dovrebbe vincere un Palio almeno ogni 7/8 anni per mantenersi vitale, per avere un giusto ricambio di dirigenze e generazioni. Nella Lupa non è andata così: lunghi periodi ultraventennali fra una vittoria e l’altra e poi un cappotto e un’altra perla due anni dopo. L’intensità della gioia è stata tale da farmi pensare, più di una volta, che aspettare così tanto alla fine non è stato così male, se ha consentito emozioni così forti.
Non che si possa scegliere, ma mi chiedo come sarebbe stato se avessi vinto effettivamente ogni 7/8 anni.
Con le tre vittorie a raffica, e anche con questa, sono ancora ampiamente sotto media, ma almeno mantengo il ricordo vivo e la speranza accesa.
Poi è arrivata la strana estate del ventiquattro. La Lupa in piazza tutt’e due le volte, avevo tranquillamente programmato di venire sia a luglio che ad agosto, con qualche giorno in più per sicurezza, non si sa mai… Pernottamento prenotato – ormai non ho più punti di appoggio a Siena -, prenotati cene e cenini, come si conviene, compreso l’ormai tradizionale pranzo “dei veterani” in piazza il giorno dopo la tratta.
Tutto pronto per luglio, poi la sorte ci ha messo lo zampino: una brutta polmonite per Chiara ci ha costretto a cancellare tutto. Il viaggio a Siena poi l’abbiamo fatto, ma alle Scotte anziché a Fontenova. E anche per agosto niente da fare, purtroppo.
Dopo la tratta, sentendo i commenti delle TV locali e gli umori degli amici nella chat dei “Ragazzi di Fontenuova”, certo la delusione era forte, e il timore di una purga ancora di più. D’altra parte, mi dicevo, prima o poi dovrà succedere che anche loro vincano (meglio poi, comunque…). Però almeno il magone di non essere sul tufo, tutto sommato, era più tollerabile: se dovevo farmi i cinquecento chilometri per purgarmi, alla fine, meglio restare a casa.
Non ho mai pensato, sperato, nei giorni delle prove e del Palio rinviato, che si potesse vincere. Ogni tanto ho qualche presentimento sul Palio (ad esempio ero sicuro dell’Onda a luglio), ma questa volta niente di niente. Speravo solo che la rivale alla fine non banchettasse a un tavolo che pareva tutto apparecchiato per loro.
E partita la corsa, devo confessare che solo dopo un mezzo giro buono mi sono accorto del bianco e nero davanti a tutti, intento com’ero a guardare i pigiamati, rallegrandomi di vederli ben arretrati.
Poi la rivelazione: siamo primi e galoppa come un fulmine. Non ci credo: vedrai che arriva dietro qualcuno che ci passa. E invece… mi sono ritrovato in terra per essere più vicino al televisore, sperando che il barbero riuscisse a restare davanti.
È lupa, è lupa! Mi sono sorpreso a battere pugni in terra e scalciare come un matto, incredulo e felice. La ruota è girata davvero, la Lupa è grande. Per chi come me ha vissuto gli anni di buio pesto e vedeva vincere sempre gli altri, è qualcosa di incredibile.
Vedere le immagini dal Duomo con Don Moticcia (ormai Don K8) sudato e felice – lui che l’aveva sempre detto, e scritto, che avremmo vinto – e tutti gli amici di una vita, con i capelli bianchi, saltare come ragazzi, da un lato alimentava il dispiacere di non esserci, dall’altro la gioia di aver comunque vinto.
E poi i messaggi, le telefonate, rivedere quella corsa splendida all’infinito. La riconoscenza a chi ha gestito la Contrada per aver fatto le scelte giuste, aver richiamato un fantino che era fuori dai giochi (vuol dire saper riconoscere il valore delle persone), per aver messo in atto le strategie vincenti.
Alla fine, anche visto da lontano, vedere il trionfo del bianco e nero è comunque sempre una grande, immensa gioia. Grazie a chi l’ha resa possibile.
Marco Parlangeli