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lunedì, Novembre 25, 2024

Recuperare la memoria in Ecuador – FINE

La discesa di un fiume con le ciabatte infilate sulle mani. Ma sempre nel rispetto dei Guardiani delle Montagne

Ritroviamo oggi l’amico Luca Gentili per la terza parte dei suoi appunti di viaggio sull’Ecuador (la prima parte è stata pubblicata il 5 agosto, la seconda il 12 agosto). Alla fine dà un appuntamento generico per altri suoi scritti a giro per il mondo; non ci sarà tuttavia molto da aspettare giacché è già ripartito e si trova attualmente nella splendida natura della Georgia interna. Lo aspettiamo presto di ritorno (dr).

La discesa del Río Napo

Con il Chimborazo alle spalle, mi preparo a scendere di oltre quattromila metri dal nostro rifugio, ai piedi della montagna, fino a Puerto Misahuallí, considerato la porta di accesso alla foresta amazzonica. Abbiamo deciso di sostare qui un intero giorno per riprendere fiato.

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Mentre cerco di appendere i miei vestiti fradici su qualsiasi appiglio presente all’interno della stanza, getto lo sguardo fuori. Sono sorpreso dalla densità della giungla: hanno pulito solo un tratto di foresta intorno al bungalow che ci ospita, pochi metri. Provo a gettare lo sguardo oltre, nell’impenetrabile e intricato mondo verde, ma senza un machete sarebbe impossibile fare un passo.

La mia stanza, sollevata da terra di qualche metro, ha uno splendido affaccio: foglie di un verde brillante, lucide d’acqua, sembrano premere sulla pesante rete posta a chiusura per impedire agli animali di entrare. Sostanzialmente, è stata rimossa la parete più corta. Una splendida e coloratissima amaca dondola lentamente, accogliente, come un invito a sdraiarsi.

Decidiamo di fare un giro per Puerto Misahuallí, costruito all’inizio del Novecento per permettere lo sfruttamento della foresta amazzonica. Oggi è abitato da qualche centinaio di persone; tutto è un po’ cadente, e solo il piccolo flusso di turisti sostiene una fragile economia.

Una donna cucina carne dentro foglie di banano su un fuoco improvvisato lungo il bordo della strada; un nativo, con l’abito da cerimonia, chiede un dollaro per una foto, con la faccia colorata mentre vende la fiera storia della sua tribù. La gente ciondola lungo la strada mentre il Río Napo ribolle, avvolge l’acqua, la mescola. Largo decine di metri, è stato da sempre usato dalle tribù indigene dei Kichwa, degli Huaorani e dai Secoya per la pesca, il trasporto e il commercio. Sembra indifferente a ciò che gli accade intorno.

“È un fiume”, potreste obiettare. No, questo è il fiume che permise a Francisco de Orellana, nel Cinquecento, primo esploratore e primo europeo, di navigare l’intero corso del Río Napo e proseguire lungo il Rio delle Amazzoni fino all’Atlantico: quattromila chilometri di navigazione nella giungla.

Mentre ci trasciniamo lungo la riva, facciamo la conoscenza di Javier, un ragazzino dai capelli rosso fiammifero che parla un po’ di inglese. Sta cercando di tirare su qualche dollaro e, con un suo amico, ci propone la discesa del Río Arajuno, un affluente del Napo, su delle vecchie camere d’aria da camion.

Non so perché abbiamo accettato: forse per compassione, incoscienza o curiosità, non so dire.

Un vecchio furgone ci dà un passaggio, risaliamo il fiume su una carrareccia nella giungla, tra pozze d’acqua grandi come piscine e fango. In una quarantina di minuti raggiungiamo un tratto roccioso della riva, che fa da scivolo naturale verso l’acqua. Scarichiamo la nostra improvvisata attrezzatura. Mi guardo intorno, cerco di capire cosa mi aspetta.

In questo tratto, il fiume sembra tranquillo: largo un centinaio di metri, scende pacioso tra impenetrabili boschi. Agganciati per i piedi l’uno all’altro, con le ciabatte infilate sulle mani a mo’ di pagaie, affrontiamo la corrente. L’acqua è tiepida, piacevole. Piccole spiagge si intravedono lungo la riva; un castoro o qualcosa che gli assomiglia ci scruta, forse non capendo chi siano questi stupidi animali che invadono il suo territorio.

Domando a Javier se ci siano animali pericolosi. “No,” risponde, “anaconde e caimani preferiscono acque più ferme; i piranha attaccano solo nei periodi di magra del fiume. Ci sarebbero i pesci elettrici e i serpenti, ma è raro che accadano incidenti”.

Dopo questa rassicurante spiegazione, affrontiamo le rapide, dove rotonde e levigate rocce sporgenti formano potenti mulinelli. Dopo circa un’ora e mezza di navigazione, ci ritroviamo nuovamente sulla spiaggia di Puerto Misahuallí.

Devo confessare che è stato divertente. Incuriosito dai riti e dalle usanze di questi luoghi, chiedo a Javier se sa qualcosa dell’ayahuasca, la potente bevanda psicoattiva usata dagli sciamani o curanderos durante cerimonie rituali con l’obiettivo di ottenere guarigione fisica, mentale o spirituale.

“Stasera, se vi va, vi porto a fare una passeggiata nella giungla e vi faccio vedere dove avvengono i riti”, propone Javier.

Pertanto, nottetempo, percorso un tratto di foresta sotto un diluvio universale, il ragazzo ci conduce in una capanna dalla forma ovale. È qui che si compiono i riti. Ci mostra l’interno, dove le persone si sdraiano su una panca che copre tutto il perimetro; al centro, su un braciere, c’è il fuoco e il curandero somministra la bevanda sotto il suo controllo. Ci spiega che gli effetti dell’ayahuasca possono includere visioni, introspezione profonda e un senso di connessione con la natura o il divino. Anche lui ha fatto questa esperienza, se ho capito bene, in una sorta di passaggio dall’adolescenza all’età adulta.

Rientro al bungalow. La scorta di panni asciutti è finita, spengo la luce e mi sdraio, appagato, sull’amaca, ad ascoltare i rumori della foresta.

Parco Nazionale El Ángel

Abbiamo vagato ancora un paio di giorni nella giungla prima di risalire le Ande, su una strada che a tratti scompariva, travolta dalle frane, dove cascate d’acqua si sostituivano al percorso. La strada si snodava lungo il confine tra Ecuador e Colombia, sulle vie dei trafficanti d’armi e di droga. La polizia militare ci ha fermato più volte e ha sempre perquisito i nostri bagagli.

Presidiano i grumi di case, qualche incrocio, ma la foresta e l’impervia orografia del territorio sono dalla parte dei contrabbandieri. Qui, qualsiasi negozio è chiuso in una specie di gabbia: non puoi entrare, chiedi quello che ti serve e te lo passano dalla grata.

Le Ande sono magnifiche: ormai ho imparato a riconoscere tutti i vari ecosistemi. Alla fascia della foresta pluviale segue sempre una zona più secca, per poi salire fino alle foreste nebulari e agli altopiani erbosi vicino alla cima delle montagne.

Potrete capire la sorpresa quando, finita la vegetazione, all’interno del Parco Nazionale El Ángel, intorno ai tremilacinquecento metri, mi sono imbattuto in un’infinita distesa di Espeletia, una strana pianta dalle foglie pelose, alta anche un paio di metri, che cresce non più di un centimetro l’anno; pertanto, le più alte hanno più di duemila anni.

Assorbe l’acqua piovana o l’umidità delle nubi e la restituisce lentamente al terreno, permettendo la colonizzazione vegetale di questi habitat impossibili per temperatura e condizioni atmosferiche.

Leggenda vuole che queste piante siano entità spirituali che vivono tra le nebbie delle alte montagne e che veglino su tutti gli esseri viventi. Guardiani delle montagne, spiriti che proteggono le sorgenti d’acqua e le creature che vivono nei páramos. Queste entità, sotto forma di Espeletia, osservano silenziosamente chiunque attraversi il loro territorio, e se qualcuno danneggia una pianta o non rispetta la natura, i guardiani lo puniranno con sventure o malattie.

Due grossi vulcani mi sovrastano; piccoli laghi verde smeraldo occupano una minuscola valle. La strada si butta in picchiata verso la pianura. Ho percorso questo tratto di strada con l’anima sospesa, trattenendo il respiro tanto alieno e di selvaggia bellezza mi appariva questo mondo.

Potrei raccontarvi altre storie di incontri, paesaggi e leggende in cui mi sono imbattuto e spero, con queste mie storie da nulla, di avervi portato con me nel mio “wanderlust world”, nel mio irrefrenabile desiderio di viaggiare.

Chiudo con una riflessione che ho scritto in aereo durante il rientro, forse per farmi perdonare dalle persone che amo e che, per la mia passione, spesso trascuro.

“Lascia che sia”

Non legare le mie mani, non legare i miei sogni, lascia che prendano il volo. Lascia che viva ogni respiro come se fosse l’ultimo, allora tornerò da te ad accucciarmi in quel tranquillo porto. Non mi mostrare la tempesta, perché la affronterò; mostrami la quiete di un calmo oceano, di un approdo dove la sabbia si secca sulla pelle dopo un tuffo nel mare. Allora il cuore rallenterà la sua corsa, si accorderà al ritmo dell’anima salva. Lascia che sia vento, allora potremo giocare, come quando da bambini ci inventavamo le giornate leggendo le nuvole. Saremo come gocce disperse nella risacca, che mischiano i loro colori per essere cristalline. Trasparenti e invisibili al tempo, troveremo ogni pezzo della nostra vita ricomposta, unito ai sogni di tutti quei giorni che abbiamo potuto vivere senza rimpianti. Lascia che la lingua passi su labbra secche, che allievi l’arsura di chi ha provato a bere da tutti i fiumi del mondo, non trovando mai pace. Lascia che sia l’ultima curva a scoprire la via che forse non c’è, ma che ho ostinatamente cercato. Lascia che sia la mia anima inquieta a lottare contro la tempesta.

Al prossimo viaggio.

Luca Gentili

(3 – fine)

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