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venerdì, Novembre 22, 2024

La classe operaia ha cambiato pelle e casacca

Andrea Mastrangelo coglie il testimone da Dino Marchese e aggiunge temi al dibattito sul riformismo

La lettura del saggio di Dino Marchese sul riformismo attuale e sulle sue prospettive pubblicato da Siena Post mi ha indotto a una serie di riflessioni che vorrei condividere.
Cercando di cogliere in un’unica grande inquadratura su scala mondiale gli avvenimenti dall’inizio del secolo mi verrebbe da dire che il problema principale sia stata la scarsa o assente capacità di lettura dei fatti, ad eccezione di quelli che ci sono piombati addosso senza che potessimo schivarli o ridurne l’effetto.

Fra questi certamente la crisi economica del 2008 e la mutazione sociale provocata dal fenomeno migratorio, e in questo ritengo di condividere l’analisi di Marchese. E’ più o meno dall’inizio degli anni Duemila che siamo stati perseguitati da un concetto, la globalizzazione, spacciato quale medicina per tutti i mali. Scambio continuo di conoscenze, opportunità di lavoro infinitamente maggiori, possibilità di redenzione economica per popoli rimasti ai margini del benessere.

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Gli effetti li conosciamo: della globalizzazione hanno beneficiato essenzialmente coloro che avevano i mezzi per farcela da soli, e il primo di questi mezzi era la disponibilità di risorse umane: Cina e India le nuove grandi potenze, mentre altre nazioni hanno deciso di scuotersi di dosso la polvere di un colonialismo predatorio o più semplicemente hanno scelto loro da chi farsi colonizzare.

Paradigmatica la situazione africana, in cui si sono susseguiti colpi di stato a ripetizione (Burkina Faso, Guinea, Mali, Gabon e infine Niger dove per altro è presente un contingente militare italiano) che hanno rovesciato i poteri interni in funzione di nuovi rapporti di forza per spazzare via autocrazie diventate intollerabili dalle fasce giovanili ma anche in funzione di nuove alleanze su scala mondiale. Sempre meno Europa e sempre più Russia e Cina.

A nulla vale, anche su scala italiana, la considerazione che l’Africa è lontana. L’Africa è vicinissima e popolata da giovani non più disponibili all’asservimento a interessi stranieri e al silenzio di fronte a una corruzione nemmeno nascosta ma in taluni casi ostentata. Meglio l’incertezza di un colpo di stato senza chiarezza sul futuro piuttosto che l’ingiustizia del quotidiano. E questo si traduce in aperture di credito nei confronti delle nuove potenze pronte a sostituire i vecchi colonizzatori europei. Un esempio? La disponibilità di Putin a fornire all’Africa anche a titolo gratuito i cereali venuti a mancare con la guerra in Ucraina, antipasto di una collaborazione nello sviluppo agricolo.

Se in Italia la rivoluzione è un concetto messo in solaio per la estinzione fisica dei rivoluzionari, non così in altre parti del mondo. Lo pone in evidenza sempre l’Africa dove una grande fetta della popolazione giovanile ha deciso di combattere una propria rivoluzione personale mettendo a repentaglio la vita. La personale esperienza con giovani immigrati africani mi ha svelato che un migrante che arriva è il compimento di un progetto totale, nel quale si mettono in conto le possibilità di successo e quelle di insuccesso, queste ultime configurabili nel rientro forzato a casa o nella morte. Paradossale è la risposta di paesi europei come il nostro (ma certo non solo dell’Italia) che trovandosi di fronte a una spaventosa crisi demografica che mette a rischio l’impianto delle proprie società, il welfare e interi settori economici preferisce organizzare barriere anziché offrire percorsi di integrazione e valorizzazione professionale, ponendo fine al disumano spettacolo delle stragi in mare o sulle rotte balcaniche.

Tentiamo di fermare quelli di cui abbiamo assoluto bisogno. Il comparto dell’agricoltura, indispensabile al punto che l’economia classica un tempo lo definiva settore primario, nelle sue parti meno tecnologicamente avanzate è sorretto da manodopera straniera. Quando si va in auto, basta guardare chi è chino nei campi, mentre in terre padane la quasi assoluta totalità di chi governa il bestiame da latte indossa il turbante.

C’è un mondo, insomma, che la rivoluzione la sta combattendo sulla propria pelle anche se noi non ce ne vogliamo accorgere. Chi è disponibile a morire in condizioni miserabili per dare un futuro alla propria famiglia non è meno eroe di chi nei secoli passati si ritrovò sulle barricate in nome della libertà.

La crisi del 2008 non ha affiancato alle drammatiche conseguenze negative alcuno strumento preventivo per il futuro, anzi l’assenza di un credibile modello economico alternativo ha lasciato via libera al turbocapitalismo, patrimonio di una casta sempre più ristretta di oligarchi indifferenti alle sorti altrui e anche a quelle del pianeta, confondendo le regole del profitto con quelle naturali dell’uomo.

Se l’uomo viene ridotto a risorsa, al pari delle materie prime e dell’energia elettrica, forse è il caso di porci qualche domanda. La precarizzazione che avrebbe dovuto portare a un boom di posti di lavoro non ha avuto come effetto collegato il miglioramento delle condizioni economiche del lavoratore. In questo campo le frasi fatte e i luoghi comuni sono un rischio ma è difficile non ripetere la constatazione che sempre in meno detengono la ricchezza e che gli sforzi di migliorare la propria situazione economica si sono concentrati a tutti i livelli sulla valorizzazione della rendita piuttosto che sul lavoro.

Basta guardare alla trasformazione delle città da centri abitati a luoghi di transito per visitatori occasionali mentre i residenti (quelli che possono) se ne vanno in zone protette lontane dai grandi flussi. E’ una questione degli ultimi anni la chiusura di interi poli industriali non perché improduttivi ma perché meno redditizi di quanto si rivelerebbero se installati in altre zone del mondo. Le situazioni dei lavoratori e dell’intero indotto giacciono nell’indifferenza.

La disparità di condizione fra quelli che Marchese definisce vincenti e perdenti si è fatta esplosiva, e come ogni situazione del genere ha trovato esiti traumatici anche se dal nostro piccolo osservatorio italiano ne vediamo solo una porzione limitatissima, come quando il 10 agosto speri di imbatterti in una stella cadente guardando fuori dalla finestra.

Per anni la sinistra italiana si è fermata sulla constatazione che la classe operaia non esiste più; la classe operaia invece ha cambiato pelle e casacca. Non necessariamente la trovi dentro un capannone, può suonare anche alla tua porta per consegnarti una pizza, o essere impegnata in uno stage. La frantumazione del lavoro ha portato al collasso del welfare, che in molte realtà non ha più risorse. I parametri sono completamente cambiati. Negli anni Cinquanta e Sessanta una famiglia media si manteneva, a prezzo di sacrifici, con un solo stipendio, e i figli raramente erano uno soltanto; ora avere due stipendi in famiglia non è più un fatto di scelte ma è un obbligo e spesso nemmeno questi due stipendi bastano. Il totale ingresso dell’universo femminile nel mondo del lavoro è certamente una conquista doverosa ma è anche una necessità.

La rapacità della finanza non si è fatta scrupolo di giocare la carta definitiva della guerra. In Europa ne conosciamo due, quella in Ucraina e quella in Palestina, ma in giro per il mondo ne possiamo trovare un’infinità che riteniamo marginali, al fondo delle quali ci sono sempre alcuni punti fermi: i profitti dalla vendita di armi e il controllo di materie prime. Le perdite umane sono alla stregua di effetti collaterali, marginali rispetto all’obiettivo.

La sinistra di fronte a tutto questo come si è posta? Bene ha scritto Marchese che uno degli obiettivi del riformismo dev’essere l’individuazione dei valori negoziabili e di quelli non negoziabili. Vorrei sottolineare un’altra condizione anch’essa segnalata da Marchese: la ricerca, l’indagine sul presente. Se la classe operaia ha votato in massa a destra e prima ancora i 5 Stelle è anche perché pochi, al di fuori del sindacato, hanno saputo intercettarne i volti. In un mondo impazzito ci troviamo di fronte a una serie di paradossi: la destra nazionale che trova il voto dei lavoratori dipendenti, il pacifista che deve sperare nella vittoria di Trump (non so se mi spiego) per le parole spese sulla volontà di chiudere la guerra fra Russia e Ucraina. Un capo di Stato “terzo” che nel programma elettorale promette di fermare la guerra fra altri due Stati.

Basta questo a dimostrare la situazione di acqua alla gola, di marasma totale nel quale si trova il governo del mondo.

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