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lunedì, Dicembre 23, 2024

Nel Regno di Lo come poveri pellegrini incantati dal richiamo della Montagna

E finalmente arriva la rivelazione sulla vera natura di Arman, compagno e guida di strada e vita

Quinta e penultima parte di una “Vera Avventura nel Regno di Lo”, racconto di Luca Gentili. Nella prima delle sei puntate, quattro settimane fa, lasciammo il protagonista, Dharan, finalmente giunto a Kathmandu, all’inizio della sua ricerca del “luogo dove il vento racconta storie dimenticate”, in quella di tre settimane fa lo abbiamo visto scegliere come compagno di viaggio, Arman, un uomo dai mille segreti. Due settimane fa, nella terza parte del racconto, scavalca monti e attraversa fiumi a dorso di mulo verso la città di Pokhara in cui finalmente fa il suo ingresso… La scorsa settimana ha continuato a inerpicarsi sull’Himalaya scoprendo nuove stranezze. Ora le salite diventano più ardue e le cose più divine…

Panch – (cinque) Kagbani e le Grotte del Cielo

Arrivati a Kagbani, lasciammo il mulo sulla riva dell’impetuoso torrente che taglia in due il villaggio. Sull’altra sponda c’era la Gompa, un edificio, una specie di piccola torre dipinta di un rosso acceso, dove i monaci si riunivano in preghiera. L’affaccio del monastero era sull’enorme valle ghiaiosa del Gaṇḍakī, forse larga più di un chilometro, che lasciava senza fiato. Il fiume azzurro opale disegnava lunghe strisce che al sole riflettevano con lampi d’oro.

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Fermo, guardavo l’orizzonte di ghiaia e le rocce che salivano al cielo. Uno spettacolo impressionante. Scrutavo il lunghissimo ponte tibetano ornato con preghiere che oscillava nel vento e il segno del piccolo sentiero che si addentrava nel Regno di Lo.

Assorto nei pensieri, mi sentii apostrofare da un vecchio seduto al riparo di una cantonata: “Voi che cercate di attraversare le gole, state attenti. Questi sentieri non sono solo pietra e acqua. Qui vivono i ricordi di chi c’era prima. E non sempre sono gentili”.

“Di chi parli? – gli chiesi -. Dei partigiani che combattono i cinesi? O degli uomini delle grotte?”

L’uomo rise e continuò dicendo: “I partigiani combattono contro i loro nemici di carne e sangue. Gli uomini delle grotte combattono contro il tempo. Ma non tutti i combattenti hanno bisogno di un esercito”.

Arman mi tirò per una manica: “Vieni via – mi disse -, non ascoltarlo troppo. Le sue storie scorrono come il fiume, senza mai fermarsi”.

“Beh… comunque è inquietante – risposi -, ma se sono arrivato fin quassù con tutte le storie che ho sentito, nulla mi potrà fermare”.

Il fallo

Andammo a bighellonare dentro l’abitato, in cerca di un po’ di latte fresco o di formaggio.

All’angolo di una piccola piazza, parzialmente nascosta da un vecchio albero di sal, sorgeva una statua insolita che attirava subito l’attenzione di chiunque passasse. Era scolpita grossolanamente nel legno, con un aspetto grezzo che la faceva sembrare parte del villaggio da tempi immemorabili. La figura rappresentava un uomo con un fallo prominente, quasi esagerato nelle proporzioni, esposto senza pudore. Nella mano destra stringeva quella che sembrava una spada, ma il dettaglio più impressionante era il volto: una maschera grottesca, distorta in un’espressione ambigua, tra il ghigno e la smorfia.

Il viso mascherato aveva occhi spalancati, con tratti che ispiravano un misto di timore e curiosità. L’uomo sembrava incarnare una figura protettrice, ma allo stesso tempo minacciosa, un guardiano pronto a difendere il villaggio da pericoli invisibili. La statua era adornata con nastri sbiaditi e antichi amuleti appesi attorno al collo e alle braccia, come se la popolazione locale avesse cercato di ingraziarsela o di onorarla.

Chiesi ad Arman cosa rappresentasse quella figura, e lui, con il solito tono enigmatico, rispose: “Quella è una delle divinità locali, parte di un culto che risale a tempi molto antichi, quando gli spiriti della montagna venivano adorati per proteggere il raccolto, il bestiame e la gente del villaggio. Il fallo è simbolo di fertilità e abbondanza, mentre la spada rappresenta la capacità di scacciare il male. La maschera, invece, serve a spaventare gli spiriti maligni e a ricordare la natura imprevedibile del divino”.

Mi spiegò poi che questo tipo di statue erano comuni nelle valli più remote dell’Himalaya, dove il buddhismo e l’animismo si fondevano insieme. Le divinità non erano solo entità remote e benevolenti, ma anche forze capaci di infliggere punizioni e sventure. “Qui – continuò Arman -, “il sacro e il profano convivono. Le montagne non sono solo belle, ma anche terribili. Ogni raccolto, ogni vita è una concessione degli dei, e gli uomini fanno di tutto per tenerli dalla propria parte”.

“Bene, domani ingraziarselo sarà molto importante mentre attraverseremo il ponte tibetano con il mulo. A vederlo da qui sembra che manchino alcune tavole, le funi sono logore e temo che non basteranno le preghiere a sorreggerci.”

Il dignitario

Nel pomeriggio andammo a presentarci a un dignitario locale, rappresentante del Re, per ricevere il Shog Yig (32), una sorta di salvacondotto che ci avrebbe permesso di viaggiare all’interno del regno.

Riceverlo non era una funzione automatica: quello che ti veniva rilasciato era una sorta di fiducia che il Re ti accordava.

Fummo ricevuti in una piccola casa accanto a un chorten (11). Un uomo con una pesante chiuba (3) e una fascia colorata in vita, simbolo della sua autorità, era seduto a una scrivania. Due guardie in piedi erano ai lati, con le braccia incrociate, e tenevano appesa alla cintura una corta drigug (33).

L’uomo ci squadrò. Arman era già passato altre volte di qui e aveva nascosto tutto quello che poteva far valutare la sua ricchezza: anelli e la collana che portava sempre al collo. Apparivamo veramente come due poverissimi pellegrini. Io non potevo nascondere il mio essere europeo, ma la condizione dei miei abiti era tale che in un’altra occasione l’uomo mi avrebbe fatto l’elemosina.

Arman fu veramente abile: chinò la testa, congiunse le mani in un gesto di namasté e disse: “Onorevole custode delle sacre porte del Regno di Lo, siamo due semplici viandanti, pellegrini sulla via della ricerca spirituale. Veniamo dal sud, dalle terre basse, spinti dal desiderio di apprendere e di purificare il nostro spirito. Abbiamo percorso lunghe distanze per giungere fin qui, seguendo il richiamo della montagna e del Dharma. Non siamo che piccoli esseri, come granelli di sabbia al cospetto delle alte cime. Desideriamo soltanto camminare con cuore puro e aperto, senza arrecare disturbo né offendere la sacralità di questo luogo”.

Lo ascoltavo con sincera ammirazione: era veramente un uomo pieno di risorse.

L’uomo apparve soddisfatto e ci rilasciò il nostro Shog Yig (32) con il pagamento di 2 rupie in argento.

Yak

Il ponte scricchiolava, ma resse al passaggio. In questo luogo non esisteva un albero, solo rocce, terra, polvere modellata dagli elementi. L’acqua che sorgeva dalle rocce, proveniente dai ghiacciai, sembrava quasi estranea al paesaggio: era fredda come una lama d’acciaio.

Lunghi rivoli segnavano le montagne, ma nulla veniva partorito dalla terra, non un solo filo d’erba. Tutto era arido e polveroso. Solo intorno ai villaggi il verde dei pioppi e i campi protetti da muri di fango splendevano come smeraldi, creando una piccola aura intorno alle povere case.

Qui uno dei beni più preziosi è lo sterco di yak, che viene raccolto e custodito per rendere fertile la secca polvere delle montagne o bruciato nei bracieri nei rigidi inverni. Lo yak è la vita, forse vale più di un figlio.

Per poter coltivare questo deserto, gli uomini hanno costruito piccoli canali con cui irrigano i campi e muovono le macine per tritare le granaglie. Le case sono di pietra, basse, con minuscole finestre e tetti piani coperti di argilla gialla per essiccare le sementi.

Nulla è lasciato al caso, tutto è al limite per sopravvivere ai rigidi inverni d’alta quota.

Nella strada verso Lo Manthang, capitale del regno, ogni sera cercavamo di dormire in uno dei piccoli villaggi disseminati sul cammino. Rimanere la notte all’aperto sarebbe stato drammatico per noi e per la povera bestia che ci accompagnava.

Gnami

Dopo giorni di cammino tra valli profonde e pendii montuosi, arrivammo a Gnami. Il villaggio era nascosto come un gioiello dimenticato tra le pieghe delle montagne. Chiedemmo ospitalità a una donna che ci aprì la sua casa. Il marito era fuori nei campi, la casa isolata era poco fuori dal villaggio. Sembrava guardare con aria complice Arman, come se lo conoscesse. Premurosa ci pregò di sederci, dicendo che ormai era sera e non conveniva avventurarsi tra i poveri vicoli, poiché il villaggio si stava addormentando.

In onore degli ospiti che venivano da così lontano, iniziò a preparare i momo. Non è un cibo qualunque, ma il piatto delle feste. Lavorò la farina d’orzo, partizionò l’impasto facendo dei piccoli dischi, li riempì con verdure, per non urtare nessuna delle sensibilità religiose che avrebbero partecipato alla cena e li mise a cuocere al vapore di una pentola di coccio sopra un graticcio di bambù, coperto da una campana di argilla traforata.

Osservavo attento ogni sua mossa. La donna si aggirava per il locale, dividendosi tra la cucina e l’accudire gli ospiti che, avvertiti del nostro arrivo, stavano arrivando alla spicciolata: figli, cugini e dignitari. Offriva a tutti Po Cha (36), poi con i momo arrivò il Chhyang (37), una birra di cereali fermentati, utile per ammazzare il sapore della salsa che era così piccante da far lacrimare gli occhi.

Arman entrava e usciva dal locale, parlottava fitto con alcuni dei commensali. Io, disteso su una stuoia, avevo la mente un po’ offuscata da una bevanda forte e chiara come l’acqua che veniva servita in piccole ciotole di legno, chiamata Raksi (38).

Quella sera dormii in un angolo della cucina, stordito dall’alcol che maldestramente non avevo controllato.

Il muro di Mani

La nostra sosta a Gnami era stata decisa per riposarci un giorno e recuperare le energie prima di proseguire verso Lo Manthang. Ma la mattina seguente, appena ci avvicinammo al centro del villaggio, mi accorsi che in quell’aria c’era qualcosa di diverso: la gente sembrava scrutarci con un misto di curiosità e diffidenza e tra gli anziani che chiacchieravano accanto al muro di mani (39), il silenzio calò improvvisamente quando ci avvicinammo.

Arman sembrava sapere esattamente dove andare. Mi indicò un angolo appartato del muro di mani, dove alcune delle pietre apparivano diverse: più grandi, scolpite con simboli antichi che non riconoscevo. Non erano solo mantra buddhisti, ma rappresentazioni di figure enigmatiche, volti scolpiti che sembravano emergere dalla pietra con espressioni grottesche.

Mentre mi fermavo a osservare quelle strane pietre, Arman si voltò verso di me e, con voce bassa, iniziò a raccontare una storia che sembrava uscita dalle leggende locali.

“Questo era un luogo sacro molto prima dell’arrivo del buddhismo,” disse, sfiorando una delle pietre con le dita. “Si dice che questo muro di mani sia sorto attorno ai resti di un antico palazzo del re, un palazzo che non era governato da un re qualunque, ma da un capo che aveva legami con gli spiriti delle montagne.”

Il palazzo del re era un luogo di potere, costruito in una posizione strategica per controllare la valle sottostante. Durante un’epoca ormai dimenticata, i capi del palazzo avevano resistito agli invasori che cercavano di portare il buddhismo nelle loro terre. Erano partigiani, uomini e donne che lottavano per la loro cultura, per la loro religione e per il legame con gli elementi naturali.

“Ieri sera la cena offerta in nostro onore era tra queste genti. Queste montagne – mi disse -, non erano solo rifugio, ma casa del popolo delle Grotte del Cielo”, un gruppo di uomini e donne che, ostinatamente, cercavano di mantenere viva la loro religione antica, precedente al buddhismo.

“La religione delle Grotte del Cielo – disse Arman con uno sguardo intenso -, era fondata sul culto degli elementi: il vento, l’acqua, la terra e il fuoco. Erano sciamani, custodi del sapere antico, e avevano la capacità di comunicare con gli spiriti delle montagne e dei fiumi”.

Poi Arman mi guardò fisso negli occhi e aggiunse qualcosa che mi lasciò senza parole: “Io sono uno di loro”.

Solo allora mi tornò alla mente il nostro passaggio sul fiume Trishuli, la zattera instabile, le acque in piena, e quel momento in cui sembrava che tutto sarebbe finito. Ricordai Arman, la calma con cui aveva posato il riso sulla pietra piatta a margine del fiume, e come, contro ogni logica, questo si fosse placato.

“Fu quello il momento in cui ogni cosa si mise in ordine,” poi Arman aggiunse, come se mi avesse letto nella mente: “Le acque non ascoltano chiunque, ma chi sa parlare con loro”.

“Ecco, ora ti ho svelato le mie origini. Non tutti capiscono – disse -. Molti pensano che il buddhismo abbia soppiantato tutte le vecchie credenze, ma nelle valli e sulle montagne ci sono ancora persone che ricordano e praticano quei riti. Io sono stato cresciuto tra di loro”.

A sera mi fece sedere attorno a un grande fuoco. Le faville, inghiottite dalla notte, si disperdevano nel vento e sembravano andare come piccoli semi di luce a confondersi tra le stelle.

Un anziano uomo arrivò. Arman mi disse: “Questo è Lhakpa, uno degli ultimi custodi delle Grotte del Cielo”.

Lhakpa mi osservò in silenzio, poi annuì, come se avesse compreso qualcosa di me che io stesso ancora non capivo. Senza dire una parola, mi indicò il muro di mani (39), dove alcune delle pietre erano diverse dalle altre. Mi disse che quelle pietre non erano lì solo per benedire i passanti, ma erano state poste dai loro antenati come un sigillo per proteggere il villaggio.

“La nostra fede,” disse Lhakpa, “è come queste montagne. La possono ricoprire di neve, il vento può tentare di eroderla, ma resterà sempre lì, a custodire ciò che è stato e ciò che sarà.”

Rimanemmo a guardare il falò, poi, quando le braci si erano sostituite alle fiamme, Arman mi disse: “Dharan, qui termina il mio viaggio. Lo Manthang ormai è poco lontana. Troverai un tempio a una giornata di cammino da qui e il giorno dopo sarai nella capitale. Io rimango tra la mia gente, qui ho ritrovato la mia direzione”.

(5 – continua)

Glossario

(3) Chuba: Tunica di lana grezza – (11) Chorten: Stupa Tibetana – (12) Bhatti: Sorta di caravanserraglio – (20) Tsampa: Farina d’orzo tostata – (29) Śāligrāma: Fossili, simbolo di Vishnu – (30) Mani Lhakhang: Corridoio con ruote della preghiera – (32) Shog Yig: Salvacondotto – (33) Drigug: Spada – (36) Po Cha: Tè al burro – (37) Chhyang: Birra di cereali fermentati – (38) Raksi: Bevanda alcolica chiara – (39) Mani: Pietre sacre con inciso un mantra.

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