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domenica, Marzo 9, 2025

La merenda nel campo, apericena degli anni ’60

Torrita ma non solo: i ricordi delle tradizioni semplici della campagna senese

C’è stato un tempo, per me, a Torrita di Siena, dove le merende non erano fatte per passare il tempo in compagnia, ma per segnare la fine di una lunga giornata di lavoro nei campi. Un po’ come oggi gli apericena, direte. In fondo anch’essi segnano il fine giornata e il rientro a casa subito dopo.

Beh, forse la vera origine di questa tradizione va ricercata proprio in quei piccoli momenti di condivisione al tramonto, tra campagna e famiglia. Perché una differenza c’è. Le merende-cena al campo erano consumate sul “luogo di lavoro”.

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In un’epoca in cui la fatica era il comune denominatore che avveniva all’aperto, nei campi; e il cibo, semplice e genuino, dava il giusto sostegno per riprendersi e terminare il giorno con serenità.

Era un’estate degli anni ’60, in una piccola casa di campagna, dove gli zii Dante e Dina, trasferitisi da poco da Pienza, coltivavano la terra. Un piccolo podere subito dopo la discesa tra via d’Iseo e la strada per Caselle.

Una zona che sarebbe diventata, qualche anno dopo, il luogo dove avrebbero costruito la loro casa.

Mio cugino, Giordano, più grande di me, lavorava già in una fabbrichetta vicina, specializzandosi nell’intaglio e nella lavorazione del legno. Io, ancora alle scuole medie, a Chianciano Terme, aspettavo con ansia l’estate per quei momenti insieme a loro.

Alla sera, al calar del sole, la zia Dina arrivava con un paniere. Non sempre. Ma era il momento che più attendevo. Dentro, un fazzoletto blu custodiva ciò che sarebbe servito per una merenda speciale al campo. Sale, pane, cetrioli, pomodori, e l’immancabile cipollotto, una costante nei nostri pranzi all’aperto.

Ma la vera portata regina di quelle merende erano le uova: ripassate nel pomodoro, lessate, in frittata con patate e cipolle, o semplicemente preparate con le verdure di stagione: carciofi, bietole, spinaci – tutto quello che la zia trovava pronto nell’orto -. Oppure avanzati del giorno. In una pratica che oggi chiameremmo “riuso”. Ma allora in cucina nulla andava mai sprecato.

Le fette di salume, il pecorino fresco, la frutta di stagione – susine, popone, cocomero, pera, mela – completavano il pasto. E, per dissetarci, il vino e l’acqua fresca, che venivano refrigerati nel pozzo. Il frigorifero non c’era ancora.

Il fazzoletto veniva steso sul terreno, le cibarie sistemate sopra. Ci accoccolavamo intorno a questo desco improvvisato, mentre lo zio tirava fuori il suo coltello da lavoro, un serramanico senza punta, e si preparava a condividere con tutti un po’ di quella bontà. Il suo rituale consisteva nello zuppare il pane raffermo nel vino, gustando lentamente, alternando bocconi di cipollotto con sale e pezzetti di pecorino. Per lui, era una dolce fine pasto che non dimenticò mai.

Quando il sole scendeva e la brezza serale sollevava un po’ di frescura sotto le piante, iniziava il nostro piccolo rito. Merenda-cena al campo, uno dei momenti più puri e naturali della giornata, un modo per staccare dal lavoro e godere della quiete della campagna, senza la necessità di riempire la serata con inutili formalità.

Poi, con gli attrezzi riposti nel carretto, si tornava a casa. La brocca d’acqua, il lavaggio veloce al pozzo, o nella catinella dell’acquaio. In quegli anni, i comfort di oggi erano ancora lontani: il wc non esisteva, e il bagno un lusso da consumare comunque in un catino di lamiera.

Ma, nonostante le difficoltà, quelle serate restano nella mia memoria come simbolo di una vita semplice, ma ricca di affetti e valori. Il sapore autentico della terra, della fatica, della famiglia.

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