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giovedì, Marzo 6, 2025

Humanity, quando Stefano Cipollone torna in Malesia con l’autostop

Per “Insoliti Viaggiatori – Viaggi per Umani” la terza e ultima parte dell’intervista: un viaggio nell’anima delle persone

Nelle scorse settimane vi ho raccontato in due puntate il viaggio straordinario di Stefano Cipollone con il suo inseparabile “Pegiottino”, il Peugeot XPS 125 che lo ha portato a esplorare mezzo mondo, trasformando una piccola moto in una grande compagna d’avventura. Prima verso la Turchia e poi verso la Malesia. Ora, Stefano ci invita a scoprire un’altra pagina della sua storia: Humanity, un viaggio nel viaggio, nato dalla voglia di continuare a esplorare, ma con una prospettiva diversa e profondamente umana.

In un mondo in cui tutto sembra correre veloce, Humanity rappresenta un ritorno all’essenza: il contatto umano. Dopo aver lasciato il “Pegiottino” in Malesia per quasi quattro anni, Stefano ha sentito il bisogno di riprendere il filo di quell’avventura. Non lo ha fatto in sella a una moto, ma affidandosi al gesto più semplice e universale: la fiducia. Partendo dall’Italia e attraversando paesi come la Turchia, il Kurdistan iracheno, l’Afghanistan, la Cina, il Laos e la Malesia, Stefano ha scelto l’autostop come modalità di viaggio, riducendo al minimo i confini tra sé e le persone incontrate lungo la strada.

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Ogni passaggio, ogni incontro, ogni sosta è diventato un’opportunità per scoprire il lato più autentico dell’umanità. Humanity non è solo un viaggio, ma un manifesto: un tributo alla generosità delle persone, alla loro capacità di tendere una mano anche in situazioni difficili. È la dimostrazione che, al di là delle differenze culturali, linguistiche o religiose, esistono valori universali che ci uniscono: la solidarietà, la fiducia e l’ospitalità.

Come racconta Stefano, il periodo della pandemia ha risvegliato in lui il desiderio di ritrovare quelle connessioni perdute: il calore di un sorriso, la forza di un gesto semplice, il dialogo sincero con chi ha poco ma offre tutto. Attraverso ogni paese, da chi gli ha offerto un passaggio sul Pamir a chi lo ha accolto con the e racconti nei villaggi afghani, Humanity si è arricchito di storie di resilienza, speranza e curiosità.

In questa intervista, Stefano ci porta dietro le quinte di Humanity, condividendo esperienze, riflessioni e aneddoti di un progetto che non è solo un’avventura straordinaria, ma una lezione di vita: un viaggio nell’anima delle persone e nel significato più profondo della fiducia.

Durante il viaggio con il “Pegiottino” mi hai parlato del progetto Humanity. La cosa mi ha molto incuriosito. Ce ne vuoi parlare? Mi racconti di cosa si tratta e come si è sviluppato?

“Il progetto Humanity nasce nella mia testa sul finire della pandemia, anche se in quel periodo non sapevo ancora che si sarebbe chiamato così. Non avevo idea di come strutturarlo, ma sentivo fortemente la necessità di tornare a contatto con le persone, andando controcorrente rispetto a tutte le procedure e le distanze imposte in quel periodo. Nel maggio 2023, decisi che era arrivato il momento di dare concretezza a questa idea. Dovevo anche riprendere il “Pegiottino”, che era parcheggiato in Malesia dal dicembre 2019. A quel punto, dissi a me stesso: “Facciamo diventare questo viaggio una realtà”. Da qui è nata l’idea di viaggiare dall’Italia alla Malesia in autostop. Per sviluppare l’idea, mi ha aiutato Gianluigi, un amico grafico che ha lavorato con Jonathan Nencini. Insieme, abbiamo costruito un vero e proprio progetto, che abbiamo deciso di chiamare Humanity“.

Chi è Gianluigi?

Gianluigi è un amico di Salerno, anche lui un moto viaggiatore. Graficamente, mi ha aiutato a impostare l’identità visiva del progetto e a costruirci qualcosa di più significativo attorno. Non volevamo che l’esperienza dell’autostop fosse solo un’avventura personale, ma che avesse anche una rilevanza sociologica. Sai, oggi l’autostop è visto come una pratica d’altri tempi. Molti pensano che sia pericoloso, che non si faccia più, e che soprattutto nei paesi del Medio Oriente sia impossibile. Ma per me è sempre stato qualcosa di speciale. L’ho scoperto a 19 anni in Scandinavia, inizialmente per necessità economica, e da allora mi ha sempre affascinato. Così ho deciso di provarci: ho chiuso la porta di casa mia a inizio luglio 2023, alzato il pollice al primo incrocio a 200 metri da casa, e sono partito”.

Perfetto! Hai unito a questo viaggio qualcosa di sociale, oltre al contatto diretto con le persone?

Sì. La distanza che dovevo percorrere era immensa, circa 30.000 chilometri, e i tempi erano dettati anche dalla necessità di continuare il viaggio con il “Pegiottino”. Durante il tragitto, incontravo moltissime persone che, incuriosite, mi invitavano nei loro villaggi. Spesso mi facevano domande: “Perché non prendi un aereo? Cosa ci fai qui, col pollice alzato?”. Davanti a un the, un caffè o qualcosa da mangiare, spiegavo il progetto e le motivazioni dietro questa scelta. Le persone erano sorprese e incuriosite dal vedere un italiano alto 1,90 viaggiare in questo modo attraverso luoghi insoliti”.

Qual è stato il primo paese che hai attraversato?

L’Italia, ed è stato uno dei più difficili. Anche la Bulgaria e la Grecia sono stati complessi per lo stesso motivo: una forte crisi economica ha creato paura verso il diverso, lo straniero, o semplicemente “quello strano”. Quando le persone faticano ad arrivare a fine mese e il populismo domina, è facile influenzare l’opinione pubblica attraverso i media. Chiedevo spesso alle persone perché fosse così difficile fare autostop. Mi rispondevano che c’era paura. Eppure, quando sono partito, ero vestito in modo semplice, con uno zaino e un cartello. Non scrivevo “Malesia”, perché mi avrebbero preso per pazzo! Indicavo solo la città più grande nella direzione in cui stavo andando. Qui, al primo incrocio, ho aspettato un’ora e mezza sotto il caldo atroce di luglio. Nel mio paese, dove qualcuno mi conosceva anche, è stato comunque difficile. Questo mi ha fatto riflettere: le persone in paesi più benestanti sono influenzate da una diffidenza diffusa dai media. Nei paesi poveri, invece, è l’esatto opposto. Più il paese è povero, più è facile fare autostop. In luoghi come l’Iran, il Pakistan, l’Afghanistan, il Laos, il Tagikistan e la Turchia ho trovato un’accoglienza straordinaria”.

Davvero?

Sì, parliamo di persone che mi portavano con loro per giorni, mi facevano conoscere i loro parenti, mi ospitavano un paio di notti e mi offrivano da mangiare. Sul Pamir, dove le strade sono tutte sterrate, si procede lentamente. In quel contesto, ho stretto legami che durano ancora oggi, soprattutto con chi parlava inglese. La loro accoglienza era genuina e profonda. Non mi hanno mai percepito come un pericolo, e io non ho mai avuto problemi con loro. Durante il viaggio, ho preso circa 200 passaggi”.

Come ti eri organizzato per dormire? Usavi una tenda o cercavi di alloggiare in ostelli?

Dormivo dove capitava, e la mia fedele tenda era indispensabile. Ho dormito ovunque, proprio come durante il viaggio con il “Pegiottino”. La differenza principale tra il viaggio in moto e quello in autostop è che con la moto, in qualche modo, riesci quasi sempre a raggiungere un villaggio. Raramente mi è capitato di trovarmi nel nulla con la moto. Con l’autostop, invece, succedeva spesso che mi lasciassero in un punto isolato, dove non c’era nulla. Di notte non facevo autostop, quindi cercavo un posto sicuro dove piazzare la tenda e dormire lì. Ho passato tante notti in tenda, qualche volta sono stato ospitato, e raramente ho dormito in ostelli. Questo perché i miei passaggi spesso mi lasciavano fuori dai centri abitati, in luoghi sperduti, che però avevano il loro fascino, lontano dai circuiti turistici”.

E per mangiare come ti arrangiavi?

Per mangiare mi adattavo al paese in cui mi trovavo. A volte un panino o un po’ di frutta erano sufficienti, altre volte trovavo un punto ristoro e mangiavo quello che passava il convento. Avevo con me un fornellino a gas, ma una volta lasciata l’Europa non sono più riuscito a trovare le bombole piccole compatibili. Alla fine è rimasto inutilizzato”.

Quando sei partito?

Era piena estate, i primi di luglio”.

Raccontami un po’ il tuo percorso. Dopo l’Italia, quali sono stati i paesi che hai attraversato?

Dopo l’Italia, che è stata una delle tappe più difficili, sono passato per la Bulgaria e la Grecia, che hanno avuto le stesse complessità. I Balcani, in generale, sono stati più semplici. Poi sono entrato in Turchia e ho puntato verso il Kurdistan iracheno”.

Ecco, il Kurdistan è uno di quei luoghi che suscita molta paura. Io però ho sentito testimonianze di viaggiatori che hanno trovato grande ospitalità. Com’è stata la tua esperienza?

Mi sono sempre chiesto: perché la gente ha paura di questi posti? Eppure, non si preoccupano a visitare capitali europee dove accadono crimini terribili. La risposta, credo, sta nell’influenza del pensiero filo-atlantista che ci dipinge come esportatori di democrazia e paesi come quelli islamici come pericolosi. La mia esperienza, sia lavorativa che di viaggio, mi ha dimostrato l’esatto opposto. In Kurdistan ho trovato un’accoglienza straordinaria. Mi ha sorpreso che molti giovani parlassero un inglese migliore del nostro, probabilmente grazie alla presenza americana degli ultimi vent’anni. Ricordo che a Erbil faceva un caldo terribile, 50 gradi, e non mi sentivo benissimo. Lì è comune usare taxi condivisi: persone con auto private ti fanno salire per pochi soldi, ed è molto economico. In generale, le persone erano sempre gentili. Mi hanno offerto pranzi, mi hanno ospitato nelle loro case e mi hanno mostrato i loro luoghi”.

Come sono state le esperienze di ospitalità in casa?

L’Afghanistan è stato il Paese in cui ho ricevuto più ospitalità, ma anche in Iran è stato incredibile. Durante l’estate faceva un caldo tremendo, così ho attraversato solo la parte settentrionale dell’Iran per poi entrare in Afghanistan attraverso Mashhad, una volta ottenuto il visto. In Afghanistan era quasi impossibile pagare per dormire o mangiare. Le persone ti accoglievano sempre e spesso si esponevano a dei rischi pur di ospitarmi. Mi portavano in giro a visitare moschee o altri luoghi interessanti, mostrandomi tutto con grande entusiasmo. Erano molto curiosi di conoscere un occidentale, visto che per loro è quasi impossibile viaggiare. I giovani parlavano inglese e spesso facevano da interpreti per i più anziani. È stata un’esperienza fantastica ma impegnativa. Le strade in Afghanistan sono un’avventura: molte sono ancora sterrate, e le condizioni sono il risultato di 50 anni di guerra. Nonostante la povertà, le persone erano sempre cordiali e disponibili. È stato incredibile: trovare un passaggio in Afghanistan è stato mille volte più facile che in Italia”.

Senti, ti faccio due domande un po’ delicate. La prima riguarda i “famigerati talebani” e la seconda la condizione delle donne. Che idea ti sei fatto su questi aspetti?

Beh, posso raccontare solo ciò che ho vissuto durante le due settimane trascorse lì, un tempo breve per approfondire davvero. Dal 2022 i talebani hanno il controllo del paese, quindi non hanno più interesse a fare attentati o rapimenti, dato che ora governano. Per strada ci sono moltissimi checkpoint, ma non è una cosa esclusiva dell’Afghanistan: ho trovato lo stesso in Pakistan, nella parte orientale dell’India e in diversi paesi africani. Ero abituato a questo tipo di controlli. I talebani, però, si dividono in diverse categorie. Nei checkpoint stradali ci sono i soldati, spesso armati pesantemente, che non parlano inglese. L’unica parola che conoscevano era “passport”. Guardavano il mio, forse leggevano “Italy”, me lo restituivano e finiva lì. L’unica volta in cui ho avuto uno scambio significativo è stato con alcuni funzionari talebani, probabilmente più istruiti e con una conoscenza dell’inglese. Ero sui laghi di Band-e Amir, completamente circondato da ragazzi curiosi che mi bombardavano di selfie e domande. I funzionari si sono avvicinati per allontanare la folla e si sono assicurati che tutto fosse a posto. Ricordo questa frase che mi ha colpito: “Sappi che siamo qui per garantire la sicurezza. Non avere timore a visitare il nostro bellissimo paese. Per qualsiasi problema, vieni da noi”. La scena era surreale: erano armati di Kalashnikov, ma subito dopo li ho visti prendere dei pedalò a forma di papera sul lago, passando le armi da uno all’altro. Ho anche una foto di questo momento incredibile”.

Ho sentito dire che per attraversare l’Afghanistan servono permessi per ogni provincia. È vero?

Sì, Emilio Radice, che hai intervistato, me lo aveva detto. In teoria servono permessi rilasciati dal Ministero degli Interni, uno per ogni provincia. Credo si possano ottenere a Herat o Kabul, ma è un processo lungo e costoso. Viaggiando in autostop, però, davo meno nell’occhio, perché ero nelle auto afghane, circondato da afghani. Solo una volta mi hanno chiesto il permesso a un checkpoint. Ho fatto finta di non capire e mi hanno lasciato andare. In moto, invece, è molto più probabile che ti fermino e ti chiedano i documenti. Emilio e Ramon Chiodi, due italiani che avevano attraversato l’Afghanistan prima di me, mi avevano raccontato di essere stati fermati diverse volte per i permessi”.

E sulla condizione delle donne?

Purtroppo, ho avuto pochissimi contatti con le donne afghane. La situazione è molto diversa rispetto all’Iran. In Iran ho conosciuto molte donne e ragazze: quando entravo nelle loro case, si toglievano il velo e si mostravano molto curiose di conoscere il mondo. Parlavano inglese, mi facevano tante domande, e alcune volte mi hanno invitato a feste in casa, clandestine e con alcol fatto in casa. Era una situazione rischiosa, ma dimostrava il loro desiderio di vivere una vita normale, spensierata. In Afghanistan, invece, le donne erano sempre separate. Quando entravo in una casa, si spostavano in un’altra stanza. Ho avuto forse un unico contatto con la moglie di un giovane che mi aveva ospitato, ma era un caso isolato. I due popoli sono molto diversi: in Iran le donne partecipavano alla conversazione, in Afghanistan, invece, erano invisibili”.

Quindi, dopo l’Afghanistan quale paese hai attraversato?

“Dopo l’Afghanistan sono entrato in Tagikistan, con il sogno di attraversare il Pamir. È stata un’esperienza unica, ma anche molto impegnativa. I paesaggi sono indimenticabili, ma si sale fino a quasi 5.000 metri, e le strade sono sterrate e distrutte. Durante il viaggio ho trovato diversi passaggi, tra cui due giorni su un camion che trasportava mattoni. Immagina la velocità media in salita su quelle strade: 10-15 km/h. Abbiamo impiegato due giorni per percorrere una distanza brevissima. Ricordo una notte in particolare, quando ci siamo fermati oltre i 4.000 metri. Faceva freddissimo, e io avevo finito i soldi. Ho questo problema spesso, perché viaggio con le carte e porto con me poco contante, tranne nei paesi dove so che non è possibile prelevare, come l’Iran. Avevo solo 10 dollari, ma il gestore di una baracchetta chiedeva 20 dollari per dormire. Ho dovuto scegliere: meglio mangiare o dormire? Ho optato per mangiare, dato che era un giorno che non toccavo cibo. Ho provato a impietosirlo, ma non ha funzionato, neanche con il “napoletano” che c’è in me! Così, mi sono rassegnato a dormire fuori, nonostante il freddo. Il camionista, che parlava solo russo, ha capito la situazione e mi ha fatto cenno di dormire nel camion. Mi sono arrampicato, e con la torcia ho scoperto che il camion era pieno di mattoni. Quella notte ho dormito sopra i mattoni, avvolto nel mio sacco a pelo, per evitare i lupi che mi aveva segnalato. Al mattino presto, il camionista ha acceso il motore senza preavviso. Io sono uscito di corsa dal rimorchio e mi sono rifugiato nella cabina. È stata un’avventura incredibile, ma è questo che rende speciale il Pamir: non solo i paesaggi mozzafiato, ma anche gli incontri e le difficoltà”.

E dopo il Pamir, dove sei finito?

Sono entrato in Cina”.

Interessante! E il confine con la Cina? Come lo hai attraversato?

Il passaggio del confine con la Cina è stata un’altra grande avventura. Era molto in quota, oltre i 5.000 metri, e faceva freddissimo. Inoltre, i cinesi sono molto attenti quando vedono uno straniero, specialmente in una zona sensibile come quella. Sapevo già che mi avrebbero controllato i dispositivi elettronici e fatto mille domande, ma il problema principale è stato il fatto che ho attraversato una frontiera poco frequentata dai turisti. Questo ha insospettito molto i funzionari cinesi. Non parlavano inglese, e io non parlo cinese, quindi hanno chiamato i loro colleghi per cercare di capire cosa fare con me. Dopo diverse ore di attesa al freddo, mi hanno accompagnato a una frontiera più attrezzata, a valle. Lì sono iniziate le domande, tradotte con una sorta di Google Translate. Hanno controllato tutti i miei dispositivi elettronici, ma io avevo con me solo un telefono quasi sempre spento, un localizzatore satellitare e una fotocamera digitale. Non avevo né droni né computer, quindi è stato un controllo rapido. Il problema è sorto quando hanno scoperto che avevo due passaporti. Si sono allarmati, pensando che fossi un giornalista. Ho cercato di spiegare che il secondo passaporto lo uso solo per un visto lavorativo americano ancora valido sul vecchio documento. Ci è voluta più di un’ora per chiarire la situazione. Alla fine, dopo mille chiamate e domande, mi hanno lasciato entrare dicendo semplicemente: Questa è la Cina, vai”.

E quindi ti hanno lasciato libero di fare l’autostop in Cina?

Sì, però ho omesso che stessi facendo l’autostop. Prima di arrivare alla frontiera mi sono fatto lasciare un paio di chilometri prima e sono andato a piedi, spiegando che viaggiavo con i mezzi pubblici. Dire che facevo autostop non sarebbe stato ben visto, soprattutto nello Xinjiang, dove c’è molta polizia. La Cina è stata impegnativa per la barriera linguistica e per il controllo costante. Spesso mi fermavano, mi portavano alla centrale e mi facevano domande. Usavano i traduttori per capirmi, ma spiegare il progetto Humanity era complicato, così dicevo semplicemente che ero uno studente con pochi soldi”.

E sei riuscito a farti ospitare da qualcuno?

Molto difficile, almeno nella parte della Cina che ho attraversato inizialmente. Poi, però, ho deviato dal percorso originale. Invece di dirigermi direttamente verso il Laos, ho deciso di puntare verso Pechino e da lì fino a Dalian, al confine con la Corea del Nord”.

Davvero?

Sì, mi era venuto il desiderio di raggiungere il Giappone in traghetto. A Dalian, però, ho scoperto che i traghetti per la Corea del Sud e il Giappone erano sospesi dopo il Covid. A quel punto, ho deciso di tornare indietro. Purtroppo, proprio in quel periodo ho avuto un problema di salute: una fitta allo stomaco che mi ha preoccupato. Gli ospedali non trovavano nulla oltre una gastrite, ma il dolore persisteva, così ho preso un volo per avvicinarmi al confine con il Laos. Ripreso l’autostop in Laos, è stato facilissimo, persino lungo il fiume. Da lì sono passato in Thailandia, poi in Malesia, dove l’autostop è stato altrettanto semplice”.

E finalmente hai ritrovato il “pegiottino”?

Sì, a Kuala Lumpur. Conoscevo già la città per lavoro, ma l’emozione di rivedere le Petronas Twin Towers da lontano è stata fortissima, seconda solo a quando approdi a Ortona e vedi il cupolone di San Tommaso. Sapevo che di lì a poco avrei rivisto il mio pegiottino”.

Quanto tempo ci hai messo per fare tutto questo tragitto?

Circa due mesi”.

E il meteo? Che temperature hai trovato?

Sempre caldo, un caldo atroce ovunque. Anche in Cina era umido, e nel Medio Oriente ho trovato temperature fino a 50 gradi. L’unico posto dove si stava bene è stato il Pamir”.

Benissimo. E dopo tutto questo viaggio, se dovessi tirare le somme e condividere ciò che ti è rimasto, cosa diresti?

Il viaggio non è ancora terminato, e questo lo rende speciale: è come se non avesse mai una fine, anche psicologicamente. Ma posso dire che è un’esperienza che ti cambia la vita, non tanto per i chilometri percorsi, ma per le persone che ho incontrato. Ogni sorriso, ogni gesto di accoglienza mi ha insegnato quanto le persone possano essere buone. Nonostante la povertà e le difficoltà, mi hanno accolto come un figlio, senza conoscere nulla di me. È incredibile come riescano a fare ciò, mentre qui in Occidente vediamo divisioni fomentate dalla politica e dall’odio. Questo viaggio è stato un maestro di vita. È come vivere una vita intera condensata in pochi anni, con una intensità che ti trasforma profondamente”.

Grazie, Stefano. È stato un piacere ascoltare la tua storia.

(3 – fine)

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