La sera in cui a Siena si è cominciato a guardare negli occhi il presidente del football club
L’assemblea era già cominciata da un po’. Nella sala che ospitava Millenovecentoquattro, il brusìo dei soci – lì prima per la cena e poi per la presentazione del libro sulle origini della Robur – si era acquietato, lasciando spazio alle voci scandite dei relatori. Gente, senesi, tifosi che da nemmeno un anno si ritrovava a ragionare di Siena, del calcio e del futuro di entrambi, con un ritmo tutto loro: né lento né frenetico, ma attento. Antico? Vivo.
Poi si aprì la porta. Non di scatto, ma con quel garbo che spesso accompagna chi arriva tardi in una casa che ancora non sente propria. Si voltò qualche testa, poi tutte. Silenzio, per un istante. E subito dopo, un applauso. Non fragoroso, non teatrale, ma pieno di un’umanità vera. Era il presidente del Siena Calcio.
In un italiano incerto ma rispettoso, chiese scusa per il ritardo. Era venuto, disse, “per imparare la forza della città”. Le sue parole sembravano cercare un posto dove poggiarsi. Non prometteva nulla, non cercava applausi. Guardava negli occhi.
I soci si guardarono tra loro. In quel momento sentirono di aver ricevuto un compito. Non era scritto nello statuto, né affidato da alcun potere esterno. Era il destino – o forse solo il buon senso – che chiamava: capire prima degli altri se quello straniero fosse lì solo per educazione, o se davvero stesse cercando un modo per appartenere.
Era solo ospitalità, quella che meritava? O c’era spazio per qualcosa di più? Per fidarsi, forse. Per provare a credergli.
Nessuno, quella sera, prese una decisione definitiva. Siena è antica anche nei suoi giudizi: prima osserva, ascolta, poi decide. Ma da quel momento in poi, ogni parola detta in assemblea – anche se parlava d’altro – portava in sé quella domanda: “Lo accogliamo come ospite, o lo riconosciamo come uno di noi?”
Forse, il calcio quella sera non c’entrava nemmeno. Ma forse sì, eccome.
Igor Zambesi