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domenica, Maggio 18, 2025

Questioni di fine vita: libertà, legge e umanità

La morte come ultimo atto di controllo? Ivano Zeppi interviene sulla riflessione scomoda di Paolo Benini

Nel suo “anche la morte dev’essere perfetta, oggi”, Paolo Benini affronta il tema del fine vita. Lo fa dal suo punto di vista. Con il suo approccio culturale. Senza nascondere che è un tema tra i più delicati e cruciali del nostro tempo. Parla di libertà individuale, dignità, sofferenza, ma anche di scelte estreme e profondamente umane che ciascuno vorrebbe poter affrontare con rispetto e consapevolezza.

Tempo fa anche io ho scritto un intervento su Sienapost dal titolo: “Fine vita in Toscana: libertà di scelta e dibattito etico”.

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Se ho letto bene, ci sono dei punti di contatto tra quanto scrivevo lì e l’intervento che Paolo Benini ci propone. Sul tema ho già scritto, intendevo scriverne ancora, e la sua riflessione mi spinge oggi a tornare sull’argomento.

Entrambi riconosciamo la delicatezza e la complessità del fine vita, un tema che tocca la libertà individuale, la dignità, la sofferenza, la paura. Io ho posto l’accento sul ruolo delle cure palliative, sulla mancanza in Italia di una legge nazionale chiara, sull’importanza di strumenti che accompagnino con rispetto il momento della fine. Ho segnalato, tra le altre cose, la legge toscana sul suicidio medicalmente assistito e il conflitto aperto con il Governo, che rischia di bloccare un dibattito urgente e necessario.

Benini affronta il tema da un altro punto di vista. Il suo non è un intervento normativo, né politico. È un testo ruvido, filosofico, che si interroga non tanto su come moriamo, ma su come pensiamo la morte nella nostra società. In un mondo che pretende di poter scegliere tutto – dal corpo al genere, dai ritocchi estetici all’identità – anche la morte, dice Benini, è diventata qualcosa da controllare, rifinire, perfezionare. Non si vuole più affrontarla: si vuole organizzarla. Gestirla. Anticiparla. Magari con la playlist giusta. Perché ciò che davvero non sopportiamo è che arrivi da sola, senza preavviso, senza il nostro permesso.

Scrive Benini: “La morte assistita, così come viene narrata oggi, è solo un suicidio sotto mentite spoglie. Ma almeno il suicidio ha la dignità della disperazione nuda, senza maschere. Qui invece si traveste da atto razionale ciò che è, in fondo, un ridicolo tentativo di fuga”.

Sono parole forti, che pongono domande scomode. Io continuo a pensare che ci sia una battaglia da combattere sul piano dei diritti: il diritto a essere accompagnati, a non soffrire, a scegliere come vivere anche il tempo della fine. Penso che la legge toscana – pur contestata – abbia il merito di riaprire una discussione che per troppo tempo è stata evitata. Penso che l’assenza di una normativa nazionale lasci soli i cittadini, i medici, le famiglie. Credo sia giusto rivendicare una possibilità di scelta, soprattutto nei casi estremi.

Benini non nega questa possibilità, ma la decostruisce. Mette in guardia da una società che, ossessionata dall’autodeterminazione, finisce per trasformare anche la morte in una prestazione da gestire con efficienza. La sua riflessione è esistenziale, e precede quella politica. Non si occupa di leggi, ma di senso. E me lo ha detto chiaramente in un colloquio: “Io mi colloco prima di te”.

Forse è proprio qui che possiamo incontrarci: nel riconoscere che servono norme, strumenti, percorsi chiari e rispettosi. Ma che serve anche una riflessione più ampia su cosa significhi morire oggi, e su quanto il bisogno di controllo rischi di diventare una forma di rimozione. Non è la libertà in sé che Benini contesta, ma la trasformazione di ogni scelta in un’illusione di onnipotenza.

Ieri – mi raccontava Paolo – in Svizzera è stata presentata una capsula per il suicidio assistito, elegante, tecnologica, con un sistema innovativo. Il passo successivo, chiede, è sapere quanto costa. Tariffario compreso.

Possiamo davvero accettare che anche la morte diventi un oggetto da vetrina? O vogliamo ancora parlarne, senza slogan e senza censure?

Io penso che un confronto tra posizioni diverse – come quelle di Paolo e mia – possa servire a tutti. Per non semplificare. Per non voltarsi dall’altra parte. Per affrontare davvero, da vivi, ciò che comunque ci riguarda tutti.

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