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lunedì, Giugno 9, 2025

Kharkhorin e l’incontro con Gengis Khan

Nel centro della Mongolia sesta puntata delle avventure e disavventure di “un povero viaggiatore”

Nella scorsa puntata, dopo guadi infiniti e pioggia battente, sono arrivato finalmente a Kharkhorin. La fatica è stata ripagata: sto per mettere piede in uno dei luoghi più evocativi di tutta la Mongolia.

Sono arrivato a Kharkhorin (Karakorum), stanco ma profondamente felice del mio lento vagare nella steppa. Qualcuno potrebbe dire: “Cosa avrai mai visto? Erba, animali bradi, fiumi, acqua a catinelle… e poco più”.

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No. Non lasciatevi ingannare da foto di cammini difficili: provate a immaginarvi dentro l’ultimo grande ecosistema pastorale tradizionale rimasto al mondo, con milioni di animali bradi. Dove ancora animali, uomini e paesaggio vivono secondo ritmi preindustriali, in un equilibrio fragile ma reale.

La pastorizia nomade, in stile mongolo, risale ad almeno 3.000 anni fa. Potrei dire, in sintesi, che ciò che in Europa è rimasto nei musei etnografici, qui è ancora vita quotidiana.

Negli anni tra il 1930 e il 1980, lo Stato socialista creò cooperative, ma senza mai riuscire a spezzare la vita nomade. Dopo il 1990, con la fine del regime comunista, il nomadismo tornò libero e diffuso. Oggi, però, è minacciato da cambiamenti climatici, urbanizzazione e dagli zud.

Quando scoprii questa parola, zud, rimasi colpito. Ha un significato che esiste solo qui.

Uno zud è una catastrofe invernale, una calamità climatica per il bestiame. È quando il cielo si chiude, la neve cade troppo in fretta, il ghiaccio sigilla l’erba. È quando il bestiame muore, e il nomade resta senza nulla. È un silenzio che toglie il suono ai passi e il futuro agli uomini.

Tuttavia, la pastorizia resta il cuore culturale e identitario della Mongolia. Non solo per ragioni economiche, ma per l’immaginario collettivo.

Dopo dodici giorni di gher, ho deciso di concedermi un glamping: un campeggio di lusso.
Nel piccolo bungalow c’è tutto: una candida spugna morbida, saponi profumati, crema, e una doccia fumante con acqua illimitata.

Inebetito, rimango immobile sotto il getto potente. Il vetro si appanna, l’acqua calda scivola dolce sulla pelle. Resto lì, con la ferma intenzione di sciogliermi, liquido come sapone.

Fuori, di nuovo, imperversa il temporale. Un’acqua dura batte forte sui vetri. Ma all’interno nulla è precario: pareti compatte, doppi vetri, un letto comodo e rassicurante. Sorrido, mentre riordino le cose. Una solida base da cui, per due giorni, esplorerò i dintorni.

Al mattino, sotto uno splendido sole, mi dirigo a Kharkhorin. Sono a due chilometri. Questa è l’antica Karakorum, forse uno dei luoghi storicamente più significativi di tutta la Mongolia. Da qui partivano ordini che raggiungevano l’Europa orientale, la Persia, la Cina. Fu capitale dell’Impero Mongolo dal 1235 al 1260, finché la capitale non fu trasferita a Khanbaliq (l’attuale Pechino) sotto Kublai Khan.

Poco è rimasto dell’antica capitale: prima distrutta dagli eserciti manciù, poi dal socialismo reale. Decido di raggiungere il grande monastero di Erdene Zuu passando per i campi, senza entrare in città. Ma prima, una parentesi sulla storia recente. Qui è solo un frammento di una ferita più ampia, che ha segnato l’identità del Paese nel Novecento.

Negli anni ’30, quando la Mongolia era una repubblica socialista sotto forte influenza sovietica, avvenne una delle più dure repressioni religiose dell’Asia centrale. Per ordine di Choibalsan (lo “Stalin mongolo”), vennero distrutti più di 700 monasteri. Tra i 20.000 e i 30.000 monaci furono arrestati, deportati nei gulag sovietici, fucilati senza processo. Il monastero Erdene Zuu, costruito nel 1586 sulle rovine dell’antica Karakorum, fu parzialmente distrutto, chiuso, svuotato, depredato. Solo alcune sue strutture sopravvissero, trasformate in museo di “folclore religioso”.

Avanzo per campi. L’erba è alta, nasconde quasi la moto.

La lunga cinta muraria del monastero si mostra ancora fiera, di maestosa grandezza.
Le 108 stupe che la sormontano rappresentano i desideri, i peccati, le illusioni da superare per raggiungere l’illuminazione. Tutto sembra intatto. La grande porta, massiccia, di mattoni bruni, si apre. Socchiudo gli occhi nella penombra. Poi, luce accecante. Li apro piano, nella speranza che l’orda mongola accampata si sveli.

Il più antico monastero buddhista della Mongolia è tornato luogo di culto attivo. Non sono molti gli edifici rimasti. Sul terreno, le tracce di quella che era una cittadella.

Le mura non servivano a respingere eserciti, ma avevano un significato spirituale: delimitare uno spazio sacro, separare il profano dal monastico, proteggere con la forza del simbolo. Le 108 stupe forniscono un campo di energia spirituale, per favorire la meditazione e la pratica. Non mura di difesa, ma di consacrazione.

Entro. La voce dei monaci risuona, bassa e profonda. Corro verso un piccolo edificio. Li trovo schierati lungo le pareti, ognuno con una ritualità precisa. È un teatro sacro che unisce suono, gesto, ritmo e spirito.

Il Nga (tamburo rituale) suona sordo, profondo, costante. È la voce di Buddha. I Tingsha (piatti) scandiscono il ritmo della preghiera. I monaci, con lunghi sutra dalle pagine rettangolari, li seguono sulle ginocchia, ripetendo i mantra in modo ossessivo.

La stanza è affollata di fedeli. Fatico a farmi largo. I gesti, la ritmicità dei suoni, sono un’offerta al cosmo, una vibrazione che ha effetto sul mondo reale e invisibile.

Esco dal recinto. Ho un obiettivo preciso: trovare la grande tartaruga di granito grigio.
Una delle quattro che un tempo segnavano i confini della città imperiale. Quella che cerco è l’ultima rimasta. Forse ho informazioni sbagliate. Giro un po’ a vuoto. Niente.

Decido allora di uscire dalla città. Il sole ancora bacia la strada. Cerco il piccolo monastero di Shankh Khiid: venti chilometri tra colline e silenzi, fino a un gruppo di baracche malmesse. Al centro, un piccolo edificio che sembra abbandonato. Il tetto di laccato verde è coperto da fili d’erba che si protendono verso il cielo. Anche gli angoli si sollevano, come per liberarsi dalla gravità della materia e salire verso l’illuminazione. Nonostante l’evidente degrado, la raffinata copertura, finemente decorata, mostra ancora una bellezza evidente.

Entro. Trovo un monaco e due allievi. Grandi libri aperti, a fogli mobili, scritti in una lingua per me incomprensibile. Sul banco, due tazze con un liquido biancastro: probabilmente tè al burro salato. Il monaco rosso si volta, quasi sorpreso. Accenna un sorriso. Ci accoglie. In un inglese stentato ci chiede di non fotografare. Poi si gira e scompare, lasciandoci liberi di esplorare questo luogo di pace.

Il pavimento di legno consunto, dalle vene in rilievo, scricchiola sotto i miei piedi. Il grande Buddha dorato, dagli occhi socchiusi, sembra seguire i miei passi. Scaffali, statuette dorate dai mille colori, grandissimi teli finemente ricamati: sedimenti di storia. Le luci flebili delle candele illuminano i locali, proiettano ombre di un passato appese in un tempo indefinito.

Resto in silenzio. Il corpo sospeso. Esco, insicuro. Percorro a ritroso i miei passi, le gambe molli. Solo lo splendido sole, che filtra dalla porta socchiusa, ridà certezza al tempo trascorso. La calma penombra aveva acquietato l’anima, in un comodo nido.

Così termina anche questa storia, dedicata a Kharkhorin e dintorni. Ma ne ho ancora altre,
se avrete il piacere di seguirmi nelle prossime avventure.

Se tutto è andato bene allora nulla è andato bene. Stay Wild Stay Shanti.

(6 – continua)

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