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venerdì, Luglio 4, 2025

Fine vita sotto sorveglianza

Il governo cerca l’equilibrio ma impone un controllo ideologico sulla libertà di morire, ignorando le scelte già compiute da molte Regioni

La bozza di legge sul fine vita presentata dal governo Meloni è stata definita “equilibrata” dai suoi promotori, ma a uno sguardo più attento rivela una visione profondamente ideologica e centralista, in evidente contraddizione con i principi stabiliti dalla Corte costituzionale e con le buone pratiche già adottate in diverse Regioni italiane.

Il testo, che dovrebbe garantire il diritto al suicidio medicalmente assistito nelle condizioni già definite dalla Consulta con la sentenza 242 del 2019, sembra piuttosto concepito per restringere quel diritto, condizionarlo, scoraggiarlo.

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Il primo nodo critico è l’esclusione del Servizio Sanitario Nazionale dal percorso di accompagnamento. È un’esclusione che suona come un disimpegno istituzionale, quasi a voler delegare l’esercizio di un diritto alla sfera privata o, peggio, alla solitudine del cittadino. Eppure sono già diverse le Regioni – come l’Emilia-Romagna, il Piemonte, le Marche, il Lazio e la Toscana – che hanno adottato delibere per attivare procedure regionali in linea con la Consulta, individuando comitati etici territoriali, percorsi di verifica, équipe sanitarie e tempi certi. Sono esperienze che hanno provato a dare attuazione concreta a una sentenza costituzionale, nonostante l’inerzia del Parlamento.

Il governo, invece di valorizzare queste esperienze, le ignora o peggio le neutralizza, proponendo un Comitato etico nazionale nominato dal governo stesso con potere decisionale assoluto. È una verticalizzazione che accentua il controllo politico su una scelta intima e irripetibile. Se a questo si aggiunge l’obbligo preliminare di sottoporsi a cure palliative, anche contro la volontà del paziente, e un iter autorizzativo che può durare fino a 120 giorni, diventa chiaro che l’obiettivo non è tanto quello di normare, ma di rendere il suicidio medicalmente assistito quasi impraticabile.

La retorica dell’equilibrio, più che un tentativo di sintesi tra posizioni differenti, si rivela un espediente comunicativo per mascherare un’impostazione ostile alla libertà individuale. Le dichiarazioni della ministra Giulia Bongiorno, secondo cui “il suicidio non è un diritto” e lo Stato non deve farsi carico della sua attuazione, sono indicatrici di una visione che non solo ignora il dettato costituzionale ma cancella di fatto il lavoro già avviato nei territori. È una scelta che contraddice anche il principio di leale collaborazione tra Stato e Regioni.

Il caso dell’Emilia-Romagna, ad esempio, mostra come sia possibile dare attuazione alla Consulta senza creare zone grigie, senza ideologizzare la sofferenza. La Toscana ha avviato iter formali, istituito commissioni e garantito trasparenza, pur in assenza di una legge nazionale. Con la proposta Meloni si rischia di azzerare tutto questo, di riportare il paese in una condizione pre-2019, o addirittura peggiore, dove la volontà del paziente viene sottoposta a una valutazione di legittimità morale da parte dello Stato centrale.

Non è una questione solo giuridica, ma profondamente politica. Perché una Repubblica che non accompagna le persone nella fase finale della vita, che diffida delle loro decisioni, che pretende di normare anche il loro ultimo respiro, è una Repubblica che ha paura della libertà. E lo fa con una legge che, anziché costruire garanzie, innalza muri. Così facendo, il governo non solo ignora le Regioni, ma tradisce quello che dovrebbe essere il compito della politica: non decidere al posto tuo, ma costruire le condizioni perché tu possa decidere consapevolmente, fino alla fine.

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