La casa torna al centro delle politiche urbane: l’housing sociale può diventare leva per rigenerare città più giuste e inclusive
In un tempo in cui la casa, pur essendo il bisogno più elementare, rischia di diventare un lusso, la questione abitativa riemerge come snodo cruciale delle politiche urbane, sociali e ambientali. Il ritorno dell’housing sociale, o edilizia residenziale sociale, nel dibattito pubblico non è soltanto un segnale di allarme, ma anche un’opportunità per ripensare il modo in cui costruiamo e abitiamo le nostre città. Aumentano infatti le fasce di popolazione escluse dal mercato immobiliare tradizionale e allo stesso tempo non tutelate dall’edilizia pubblica: giovani precari, studenti fuori sede, famiglie monoreddito, anziani soli, lavoratori poveri. Un’area “grigia” che sfugge ai criteri classici dell’emergenza, ma che rappresenta una quota crescente della domanda abitativa.
Accanto a queste trasformazioni sociali, si registra un rinnovato fermento istituzionale. Regioni e comuni stanno rispondendo con politiche più articolate: Regione Lombardia finanzia progetti per le fasce ISEE intermedie, l’Emilia-Romagna investe in canoni calmierati e rigenerazione urbana, mentre in Alto Adige la riforma “Abitare 2025” estende il vincolo sociale sugli alloggi per combattere la speculazione. In Toscana, un Piano Casa da 90 milioni di euro varato nel 2024 interviene su più livelli: costruzione di nuovi alloggi ERP, recupero degli sfitti, riqualificazione energetica e acquisto di immobili all’asta da destinare alla residenza sociale. Il tutto affiancato da una partecipazione strutturale al PNRR e da modelli di gestione associata che coinvolgono Comuni e operatori pubblici.
Quello che sta cambiando, però, non è solo il profilo dei beneficiari, ma l’idea stessa di abitare. Oggi non basta più pensare alla casa come bene fisico: serve un paradigma abitativo capace di integrare diritti, servizi, relazioni. La rigenerazione urbana, in questo senso, assume un ruolo chiave. Interventi come Cascina Merlata a Milano o ChorusLife a Bergamo mostrano come sia possibile trasformare aree dismesse in quartieri vitali, con mix funzionale e sociale, servizi condivisi, mobilità dolce, sostenibilità ambientale. Anche modelli alternativi come il cohousing o la co-residenza intergenerazionale stanno dimostrando la forza di un abitare che non isola ma connette, capace di offrire spazi privati a misura d’uomo e spazi comuni a misura di comunità.
Al centro di questo processo si trova il partenariato pubblico-privato, una leva sempre più strategica per progettare e finanziare interventi di edilizia sociale. Quando il pubblico definisce obiettivi chiari e il privato accetta un ritorno equo, non speculativo, possono nascere operazioni sostenibili dal punto di vista economico e sociale. Il quartiere Torrevecchia a Roma, ad esempio, è frutto di un PPP ben strutturato, con una gestione finanziaria bilanciata e obiettivi abitativi trasparenti. Anche il nuovo Codice dei contratti pubblici (D.Lgs. 36/2023) delinea con più precisione ruoli e rischi di questi partenariati, distinguendo tra forme contrattuali e istituzionali, incentivando un equilibrio virtuoso tra profitto legittimo e interesse collettivo.
Il rischio, tuttavia, è quello di affidare l’abitare a logiche di mercato senza garanzie pubbliche. È fondamentale distinguere tra attori privati impegnati in progetti sociali e operatori che sfruttano la domanda abitativa come occasione di speculazione. In questa direzione si muovono realtà come Legacoop e Fondazione Cariplo, che propongono modelli fondati su etica e solidarietà: migliaia di alloggi realizzati con canoni calmierati, vincoli di destinazione d’uso, partecipazione degli abitanti alla governance.
Parallelamente, le politiche pubbliche stanno cercando di fare sistema. Il Piano Casa nazionale inserito nella Legge di bilancio 2025, con 560 milioni di euro previsti entro il 2030, punta alla valorizzazione del patrimonio esistente, alla riduzione del consumo di suolo e al rilancio delle politiche abitative su scala strutturale. Il programma PINQuA (PNRR) ha già destinato quasi 3 miliardi tra il 2021 e il 2026 per progetti di rigenerazione urbana, social housing e coesione. E anche le Regioni, come nel caso dell’Emilia-Romagna, stanno legando sempre più strettamente le politiche abitative ai principi di economia solidale e sostenibilità urbana.
La Toscana offre un osservatorio privilegiato. Il Piano Casa regionale, i fondi complementari PNRR per la riqualificazione energetica e sismica di oltre 2.700 alloggi, i bandi per l’acquisto pubblico di immobili all’asta e gli investimenti in edilizia universitaria mostrano un approccio articolato e multilivello. Le residenze per studenti realizzate a Firenze e Pisa, grazie alla sinergia tra Università, Regione e partner privati, dimostrano come anche il mondo universitario possa diventare laboratorio di buone pratiche: servizi integrati, rigenerazione urbana, parchi pubblici e spazi per la socialità.
Non mancano, però, le criticità. Le tempistiche burocratiche restano lente, molte abitazioni ERP risultano ancora non assegnate nonostante la domanda crescente, e le resistenze locali (NIMBY) ostacolano nuovi insediamenti. Inoltre, senza strumenti di monitoraggio e governance partecipata, anche i migliori progetti rischiano di perdere efficacia nel tempo. Servono co-progettazione, ascolto delle comunità, rendicontazione trasparente e verifica dei vincoli sociali nel lungo periodo.
Ripensare le città dal basso significa ricostruire le politiche urbane a partire dalle persone, non dai flussi finanziari. Significa mettere al centro i bisogni concreti – casa, relazioni, servizi, mobilità – delle fasce più fragili e delle nuove generazioni. Significa, soprattutto, restituire valore all’abitare come esperienza collettiva, come diritto sociale, come spazio di cittadinanza. L’abitazione sociale, se guidata da una visione pubblica, può diventare il motore di una rigenerazione urbana non solo fisica, ma anche culturale e democratica.
Il futuro delle nostre città si gioca qui, tra vincoli di bilancio e orizzonti di giustizia. Tra la necessità di garantire un giusto guadagno ai soggetti coinvolti e l’urgenza di garantire un tetto a chi ne è escluso. Tra i vincoli urbanistici e la libertà di progettare spazi di vita migliori. Perché abitare, in fondo, non è solo questione di muri: è questione di dignità, di diritti, di futuro.
Francesco Pellegrini e Ivano Zeppi