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domenica, Novembre 24, 2024

Se il dollaro tentenna la Cina ne sa qualcosa

Il banchiere Divo Gronchi commenta per Leasing Magazine di dicembre le oscillazioni nei mercati valutari

Riceviamo e pubblichiamo un’anticipazione del periodico Leasing Magazine di dicembre nel quale un banchiere di fama, anche senese, come Divo Gronchi dà la sua interpretazione agli investimenti in titoli statali e ad alcuni fatti di macroeconomia per spiegare come ormai la Cina competa anche in tema di Finanza…

Il Sole 24 Ore di venerdì 10 novembre ha dato notizia di una emissione sul mercato di 24 mld di Tresuary trentennali, esito percepito come insoddisfacente.

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I motivi alla base del giudizio sono tre: la domanda ha superato l’offerta dei titoli (2,24 volte) ma in flessione rispetto alle aste precedenti; i rendimenti richiesti sono stati superiori a quelli correnti sul mercato secondario (4,769% contro il 4,716%) ed infine la partecipazione degli investitori stranieri è stata molto deludente.

Su questo ultimo aspetto può aver influito un attacco hacker alla banca cinese lcbc che le ha impedito di partecipare. Episodio peraltro a conoscenza del ministero del Tesoro USA, confermato dalle autorità cinesi e rivendicato dagli autori dello stesso. Tutto chiarito allora? Può essere, comunque è una spia della possibile vulnerabilità delle emissioni di Tresuary e tradisce l’ansia del mercato in considerazione dell’enorme quantità di titoli da emettere per supportare il crescente deficit del bilancio USA.

C’è un precedente che merita, sinteticamente, di essere ricordato, anche se il quadro macro-economico degli USA è notevolmente diverso. Come noto, gli accordi di Bretton Woods, firmati nel 1947 tra le potenze alleate, prevedevano, tra l’altro, che le valute nazionali dei Paesi membri dovessero essere convertibili ad un prezzo fisso tra di esse ed a un tasso di parità col dollaro; solo quest’ultimo era convertibile in oro (poi definito ad un valore di 35 dollari all’oncia). Si attribuiva in definitiva al dollaro un ruolo predominante quale valuta di scambio e di riserva delle banche centrali che lo acquistavano sia per rafforzare le proprie valute nazionale che per bilanciare il proprio surplus. Si trattava indiscutibilmente di un “privilegio esorbitante” in quanto gli Stati Uniti potevano coprire i propri deficit di bilancio con continue emissioni di carta valuta, come detto acquistate dalle altre banche centrali, così neutralizzando gli impulsi inflazionistici derivanti dalla creazione di moneta.

Nella seconda metà degli anni Sessanta, la spesa pubblica statunitense fu incrementata notevolmente anche per sostenere lo sforzo bellico richiesto dalla guerra in Vietnam. Ciò accentuò le aspettative inflazionistiche ed al tempo stesso accrebbe i dubbi sulla capacità di poter continuare a convertire la valuta in oro, considerata anche la scarsità dello stesso.

Per evitare di importare l’inflazione USA, la Germania lasciò fluttuare il tasso di cambio e la Francia e la Gran Bretagna minacciarono di convertire in oro le proprie riserve in dollari. Il 15 agosto 1971, Nixon annunciò la cessazione della convertibilità, causando una svalutazione della moneta americana dell’8%. Nel 1973 si passò. ad un regime di tassi flessibili, decretando così la fine degli accordi di Bretton Wood.

A parte questa parentesi, la situazione macroeconomica mondiale, anche a seguito della globalizzazione, negli anni 2000, vide protagonisti dello sviluppo tanti paesi sottosviluppati. In particolare la Cina assunse un ruolo crescente diventando una grande nazione industriale. Fu di nuovo messo sotto esame il ruolo predominante del dollaro ritenuto eccessivo. La Cina ormai determinata ad assumere un ruolo nel panorama mondiale, nel 2009 chiese una ridefinizione delle quote di partecipazione al Fondo Monetario Internazionale, in linea con la forza industriale raggiunta.

Di fronte alle resistenze degli Stati Uniti e delle nazioni alleate, fu richiesto ed ampliato il coordinamento delle politiche economiche tra i paesi ricompresi nell’acronimo BRICS (Cina, Russia, India, Brasile e Sud Africa), al fine di ricercare alternative all’utilizzo del dollaro negli scambi commerciali. Nel 2013 a Durban (Sud Africa) si discusse di quattro obiettivi principali: attivazione di accordi di cooperazione multilaterale, di partenariato strategico, di accordi sull’utilizzo delle riserve valutarie e soprattutto della costituzione di una banca di sviluppo. In definitiva era chiaro l’obiettivo di adeguarsi alle istituzioni internazionali, sottraendosi di fatto alle regole del FMI e della Banca Mondiale dichiarati strumenti economici e politici incapaci di risolvere i problemi dell’economia globale.

Nel 2016 la moneta cinese (Yuan) fu inclusa nel paniere degli SDR (special drawings rights) i diritti speciali di prelievo del FMI. Le sanzioni extraterritoriali inflitte dagli USA alla Russia a seguito della invasione dell’Ucraina, molto severe dal punto di vista valutario (esclusione dal sistema dei pagamenti SWIFT e congelamento delle riserve pari a 300 mld di dollari) hanno amplificato le reazioni di molti paesi.

Ad oggi il ruolo del dollaro è ancora dominante con una consolidata partnership con l’euro. Il biglietto verde rappresenta tuttora quasi il 60% delle riserve (oltre il 70% a fine secolo) seguita dall’euro al 21%; la riduzione sembra dovuta non tanto alla sostituzione con lo yuan (appena al 3%) quanto al massiccio acquisto di oro da parte delle banche centrali. Il dollaro costituisce poi la valuta rifugio per eccellenza.

La difficoltà a sostituire il dollaro nelle riserve è dovuta anche alla politica monetaria cinese, non supportata da una banca centrale indipendente. Diverso il discorso sul dollaro come moneta di scambio, insidiato dai crescenti accordi per regolare in valute locali gli scambi commerciali e finanziari. Lo yuan si sta infatti affermando come quarta moneta scambiata nel mondo dietro al dollaro USA, all’euro ed allo Yen. È possibile perciò che l’esito insoddisfacente dell’emissione abbia una spiegazione più contingente, legata alla situazione dell’economia statunitense e alla previsione di ulteriori rialzi dei tassi.

Al contrario di quella europea, che denota una certa debolezza anche in paesi tradizionalmente solidi come la Germania, l’economia USA beneficia di un mercato del lavoro solido, che rappresenta un forte sostegno ai consumi, nonostante l’aumento dei tassi di interesse. Tra gli elementi che contribuiscono alla resilienza del ciclo va annoverata la politica fiscale che negli USA sta alimentando gli investimenti in settori strategici come la tecnologia e la sostenibilità ambientale.

L’Inflation Reduction Act e il CHIPS and Science Act prevedono di stanziare circa 900 miliardi di dollari nei prossimi dodici mesi per rafforzare tali settori, attraverso sussidi, incentivi e agevolazioni statali. Tali misure aggravano però il deficit di bilancio, che risente pure del sostegno fornito all’Ucraina e ora a Israele.

Con le elezioni presidenziali previste per novembre 2024, è improbabile che il livello della spesa corrente si riduca, mantenendo il deficit elevato anche per i prossimi anni. Pertanto è prevedibile che il debito pubblico continui a crescere a un ritmo significativo per finanziare il “deficit spending”, che l’aumento dei rendimenti amplifichi il costo degli interessi e che il Tesoro si trovi nella necessità di emettere nuovi titoli, indipendentemente dai livelli di tassi.

A peggiorare il contesto, il nuovo debito non trova, come negli anni scorsi, la Federal Reserve come compratore naturale visto che la banca centrale è impegnata nella riduzione di bilancio ad un ritmo di 80 miliardi al mese che si aggiungono ai riscatti dei fondi obbligazionari.

Divo Gronchi

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