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lunedì, Novembre 25, 2024

La zuppa del cane e poi… ranocchie

Gesti di un passato semplice e felice, alle porte di Siena, per la rubrica “Andata e Ritorno”

Un altro racconto di “Andata e Ritorno”, la rubrica che scrivo per SienaPost e che ogni lunedì va in pubblicazione che ci sia o non ci sia. Stavolta – quando trovo la connessione – la leggerò dall’outback australiano. Forse è un racconto per bambini ma chi non rimane un po’ bambino nell’animo? E forse è proprio questo che ancora mi salva: cercare di vedere il mondo con gli occhi ingenui di un fanciullo con la fede innata che hanno negli adulti.

Le ranocchie

È mattino, uno di quelli lenti che ti giri nel letto in attesa dello sfratto dalla comoda cuccia, il nonno è passato davanti alla mia camera, ha sollevato le ciglia, corrugato la fronte, una faccia complice, che promette qualcosa.

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Dalla finestra aperta l’aria arriva fresca, mi stiro sotto le lenzuola poi mi rannicchio per ritrovare il sonno, mi alzo di scatto seduto sul letto, forse voleva dirmi qualcosa, corro in cucina, Livio il tuttofare prepara la colazione, lui sa cosa mi fa dare di matto, pane raffermo bollito nel latte con tanto zucchero, la chiamo la zuppa del cane.

Il nonno, dopo una lunga trattativa con la mamma, ha avuto il permesso di portarmi a pescare ranocchie; iniziamo i preparativi, semplici cose, una corta canna di leggero bambù, un trasparente filo piombato ad arte dal nonno, un amo, poi andremo a cercare la sua leggendaria esca.

Livio, nel frattempo, ha preparato il secchio di latta zincata, quello col coperchio: servirà per contenere le prede.

Partiamo in fila, il nonno davanti, io nel mezzo, Livio a chiudere la fila, non sembriamo proprio pescatori; piuttosto uno sparuto gruppo di profughi.

L’esca è presto trovata, sulla proda del campo un gruppo di papaveri sembra in attesa, il nonno li raccoglie e con questo bouquet in mano continuiamo in fila il cammino, che ora assomiglia al pellegrinaggio con offerta votiva verso uno di quei Madonnini che proteggono i campi, il cammino dei viandanti.

Una palude di acqua bassa fangosa precede il fontone, un piccolo lago scavato nell’argilla in uso alla vicina fornace.

Il nonno si leva le scarpe, arrotola i pantaloni sopra il ginocchio e mette i piedi, piano piano nella bassa acqua fangosa; io getto i sandali, quelli con gli occhi, che mi piacciono tanto, al sicuro sulla scarpata. Per lui l’acqua arriva al polpaccio, poco sopra, le mie corte gambe affondano fino alla coscia, sento il fango tra le dita dei piedi, le muovo piano perché sprofondino, è fresco, piacevole; ora saldo, bloccato, ancorato sul fondo, prendo una foglia di papavero e l’avvolgo sull’amo: una bruna pallina, da agitare sul pelo dell’acqua.

Presto arrivano le prime prede, anche io riesco a prenderne una che ripongo con attenzione nel secchio, ne abbiamo abbastanza dice il nonno, che si allontana tra le canne, lo vedo muoversi sulla sponda del lago, con lenti gesti, le braccia immerse nella torba acqua, dopo una buona mezz’ora si alza di scatto, una grossa Rejina (carpa regina) tra le mani, verde lucente dalle sfumature dorate, dai lunghi barbagli, si agita tra le sue dita, a me sembra una magia. La butta nel secchio insieme alle rane, torniamo fieri del bottino.

Appena a casa, Livio si mette a preparare le ranocchie, che stasera finiranno fritte in padella, io corro dietro al nonno coperto di fango da capo a piedi, i sandali legati intorno al collo, andiamo al lavatoio quello vicino alla piccola corte, lo requisisce, lo riempie della fresca acqua del pozzo, prepara l’ultima casa della Rejina, perché si purifichi prima di una degna fine nel forno.

Le gambe mi pizzicano, il fango ormai secco che mi ricopre si è rotto, sembro anche io coperto di squame.

Una lavata con la canna prima che la mamma si inquieti e poi tra le braccia di tata Marina a cancellare ogni traccia del misfatto.

La sera a tavola ho pianto, non ho trovato la mia ranocchia tra le altre, era proprio quella che volevo mangiare.

(Il disegno pesci e ranocchie è di Maurits Cornelis Escher “Fish and frogs 1949”)

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