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venerdì, Novembre 22, 2024

Sotto il canyon del Re, muraglia di cento chilometri

Seconda puntata dello speciale di “Andata e Ritorno” sulla traversata dell’Australia

Venticinque dollari australiani per un giorno in tenda. Nella prima puntata il nostro Luca Gentili lo avevamo lasciato a far pratica con la scorrettezza degli Emu nell’Ikara-Flinders Ranges National Park a 454 chilometri da Adelaide nello stato del Sud Australia che comincia a farsi alquanto arido. Oggi la seconda puntata che lo porterà nel… nulla. Ricordatevi che a parte questa rubrica “Andata e Ritorno”, Luca Gentili ha un suo blog dove mette la totalità delle sue esplorazioni planetarie (dr)

Coober Pedy

Il nome deriva da due parole aborigene che significano sostanzialmente “uomo bianco dentro la buca”. Forse i minatori, in cerca di opali, devono essere apparsi agli aborigeni come gente priva di senno, quando affannati nella ricerca di un’effimera ricchezza si calavano in un buco dentro la terra, in una delle aree più asciutte del mondo con cinquanta gradi sul terreno.

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Lo scenario di Coober Pedy si riassume così, in città vivono circa mille persone, di quaranta etnie diverse, per lo più minatori, sul terreno vedi solo baracche circondate da rottami di ogni natura. Dall’ondulato terreno, da ogni collinetta, sbucano grossi camini: sono i tubi di aerazione delle case, sì proprio case, perché qui la gente vive una decina di metri sottoterra dove la temperatura è più fresca e costante.

Una licenza di scavo costa centoottanta dollari, ti danno un lotto di centocinquanta metri quadrati, e puoi tentare la tua scommessa con la vita.

Coober Pedy è circondata da un desolato deserto, terra sacra agli aborigeni, i bianchi non la possono calpestare, abbiamo dovuto prendere una grossa jeep e una guida per poter dare un’occhiata, seguendo un preciso percorso.

The Moon Plain è esattamente quello che dice il nome, gli aborigeni lo chiamano Wilkawilka “luogo di vento” ed è esattamente quello che contiene questo infinito spazio vuoto. Ti muovi disorientato su una superficie di sassi neri che brillano al sole; sembrano trattenere il substrato di sabbia, nient’altro.

Se avrai il coraggio di proseguire per chilometri, in un’ora ti troverai sulle Breakaways, colline che hanno preso tutti i colori della terra e come una tavolozza ti sciorinano suoli color avorio, accecanti bianchi, bruni che si accendono di rosso e qua e là macchie gialle, resti di alberi fossili disfatti in piccole scaglie che macchiano il terreno.

In questo luogo di desolazione, come un miraggio, improvvisa appare l’opera dell’uomo, una recinzione che taglia il paesaggio da un orizzonte all’altro, questa è la famigerata Dingo Fence, lunga cinquemilacinquecento chilometri; costituisce una barriera che isola un terzo del paese, impedisce ai dingo di arrivare dove si allevano le pecore. Sovente nei periodi di maggior calura è barriera anche per gli innocui emù che a decine muoiono di sete, non possono andare oltre verso i billabong e si incamminano lungo la barriera finché sfiniti si accasciano al suolo.

Uluru-Kata Tjuta National Park

Dalla savana che lo circonda, come per sorreggerlo, sospeso sopra l’orizzonte già da chilometri di distanza ti appare un enorme masso levigato e arrotondato da acque e venti millenari.

Non ha nulla di naturale, nulla gli assomiglia, venerato dagli aborigeni, se ti avventuri negli anfratti potrai trovare alla sua base graffiti e pitture rupestri usate nei millenni dai nativi come scuola di vita.

L’iconico Uluru sembra assorbire la luce, piegarla per esaltarne le forme, per poi cambiare il colore della roccia col trascorrere del giorno. Non lo puoi scalare, puoi solo sostare ai suoi piedi e che tu creda o no, sprigiona un’enorme magica energia.

Dopo un lungo giro, non potendo fare altro, ho fatto scorta di acqua, mi sono protetto la faccia con una rete per gli insetti, che qui sono un flagello, cosparso ogni centimetro di pelle esposta con abbondante repellente, mi sono incamminato verso la Valley of the Winds. Ho scarpinato per quattordici, quindici chilometri tra canyon di levigate rocce e piccole pozze d’acqua.

Sul sentiero ben segnalato non c’era anima viva, potevi percepire il respiro della terra che anima questo luogo. E Uluru? A sera, quando sfinito sono ripassato sotto le sue coste, si era incendiato di rosso, impressionante, sembrava grondare sangue.

Kings Canyon

Spostandomi a nord, la savana improvvisamente si interrompe: viaggio affiancato ad una costa di roccia verticale, che si innalza verde coperta di alberi. Una insormontabile barriera naturale. Un baluardo, le mura di un fantastico regno. L’ho seguita per cento chilometri senza che presentasse varchi, fino a un piccolo resort che funge da base logistica, unica e isolata.

È stata posta lì per chi vuole tentare la scalata al Kings Canyon. Sì, perché proprio di questo si tratta: tirato fuori tutto l’armamentario indispensabile per muoversi nella natura – scarpe alte, pantaloni lunghi, cappello, retina repellente e acqua, – con nello zaino tutto l’armamentario fotografico, ho iniziato l’arrampicata.

No, non servono ramponi, ma gambe buone per le migliaia di scalini naturali di roccia che ti trovi di fronte da superare. Il supplizio dura un’ora o poco più; le mie gambe poco allenate a questo tipo di percorso sembravano abbandonarmi, chiedevano pietà.

Poi, giunto in cima, il premio: in basso la savana punteggiata di radi alberi coperta di una lunga erba dorata, l’opposta parete del canyon che dopo ripetuti secolari crolli, oggi appare come una perfetta parete verticale. Mi muovo sulla sommità: il vento ha modellato guglie, colonne tornite, passaggi d’acqua e piccoli laghi neri. La superficie della roccia ha strane onde seriali, che si ripetono frattali, ipnotiche allo sguardo: è il sedimento pietrificato del fondo di un mare che era lì ere geologiche fa, salito ora quassù a guardare il cielo.

Se sei arrivato sino qui non puoi tornare indietro – troppo tardi,- ma il luogo ti regalerà un’altra magia, un canalone di acqua termale tra palme che sembrano partorite dalla nuda roccia. E’ quello che gli scopritori hanno battezzato Garden of Eden, il Kings Canyon Waterhole. Comunque l’uomo bianco che si appropria e battezza tutto a sua immagine è arrivato ampiamente ultimo: i nativi Luritja lo chiamano Watarrka, “luogo di molti semi”, usato per millenni come rifugio e area di caccia.

Ernest Giles Road

Per uscire dal Kings Canyon hai due alternative: tornare indietro e percorrere circa duecentocinquanta chilometri di una piccola statale o tagliare per le rosse sabbie della Ernest Giles Road risparmiando centocinquanta chilometri.

Già ieri arrivando mi ero fermato sotto un grande tabellone dove i ranger infilano un cartello open o close accanto alle strade secondarie. Qui tutto è estremo: il vento, l’acqua, il calore possono devastare e rendere impraticabile una strada in poche ore.

Il territorio è piatto; la strada principale copia il terreno, non ci sono ponti. Ogni avvallamento sull’asfalto viene affiancato da una lunga asta graduata che indica i centimetri di acqua che potrebbero ricoprire il percorso. In particolari stagioni quando i tifoni esauriscono la loro forza sulla savana, si può rimanere isolati per giorni. Il telefono non ha segnale, non ci sono case o fattorie.

Conscio che molto probabilmente sarei stato da solo, saluto il mio compagno d’avventura gridando “ci vediamo di là” e inizio la traversata. Immaginate la strada come una piccola conca, una traccia tra due pareti di sabbia. Lo scenario è di una bellezza selvaggia travolgente: più volte mi fermo ad ascoltare il silenzio.

Qualche lunga lucertola, almeno un metro, si muove infastidita dal mio passaggio. Nel mezzo, nel massimo della desolazione, mi ero segnato un punto: due meteoriti hanno colpito più o meno lo stesso punto della terra; la caratteristica ferita, una conca dalle scoscese pareti, è ben visibile nonostante le migliaia di anni passati.

Quando sono arrivato quasi alla fine, incrocio una grossa jeep, armata di tutto punto, doppie ruote, snorkel per la polvere. Mi fa cenno di fermarmi, lampeggiando con i fari. Quando mi accosto, sento forte il getto fresco del condizionatore; un uomo tirata fuori la testa mi chiede “ma… vieni da nord? La strada è percorribile?”

Faccio cenno di sì muovendo la testa non ho voglia di parlare. Hanno rotto la magia, volevo rispondergli che con quel mezzo potevano attraversare la luna. Mi siedo su una pietra, all’incrocio con l’asfalto. Ho volato leggero sulla sabbia; l’adrenalina non accenna a calare. Il rettifilo si perde liquido in un orizzonte tremulo, come se una fata Morgana ci specchiasse il mare.

Alice Springs

Vi dirò poco di Alice Springs: siamo arrivati  in città mentre vigeva il coprifuoco, i giovani di età inferiore ai diciotto anni dopo le sei di sera e fino al mattino successivo non possono uscire di casa.

Qui la popolazione ha un’alta densità di aborigeni: furono trattati come live stock dai colonizzatori, cioè come bestiame e la nazione tuttora combatte una difficile integrazione. Praticamente tutti i parchi sono sacri per questa gente: sono i luoghi che pensano creati in quello spazio temporale che chiamano “il tempo del sogno”, la creazione del loro universo.

Gestiti dai bianchi, marginalmente, ai miei occhi, aiutati dai nativi: in alcuni dépliant dicono cogestiti. Uomini e donne che mal si integrano in una società che sembrano non capire. Conoscitori dei luoghi, esperti di piante e animali, hanno imparato l’arte sopraffina della sopravvivenza in armonia con la natura; qui qualsiasi bianco senza aiuto, senza le sue tentacolari protesi tecnologiche, non sopravvive un giorno. È vero: aggirarsi per le strade vuote a sera mi ha messo un po’ di tristezza.

Le termiti magnetiche

Di questo vi devo proprio raccontare: lunghi pinnacoli mi hanno accompagnato nel percorso mentre attraversavo la savana, torri di fango alcune alte anche tre metri, massicce, allungate su un asse per allinearsi con l’alba e il tramonto ed esporre la minor superficie possibile al sole.

Sono le case delle termiti magnetiche che hanno all’interno del loro corpo un po’ di magnetite  che permette loro di orientarsi sottoterra o tra i lunghi fili d’erba.

Luca Gentili e un nido di termiti magnetiche (nei pressi di Alice Springs – Australia)

Se fissi lo sguardo su un punto dell’orizzonte puoi contare centinaia di nidi che sbucano dalla savana. Milioni di case di infaticabili operaie che trasformano qualsiasi elemento organico trovino sul loro cammino.

Non so se pianterei una tenda in questi luoghi!

(2 – continua)

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