Ma invece che drammatizzare e chiedere guardie del corpo, non si potrebbe spiegarsi con la gente che sarebbe la controparte pagante?
Un po’ di trasparenza farebbe bene al sistema sanitario nazionale ed eviterebbe la diarroica ostentazione di eccellenza spesso non riscontrabile. Tuttavia, nel momento, siamo all’opposto: la Sanità si è cinta di una cortina informativa, e quindi sui media si finisce sempre per parlarne con esagerazione. Dal Covid in poi gli operatori sanitari sono martiri ed eroi, oppure autori di turpi comportamenti. E le parti sociali che li rappresentano, spesso affrontano la strada della divulgazione accentuando troppo per non correre il rischio del disinteresse redazionale.
Vorrei fare qualche riflessione forse non troppo politicamente corretta, ma buona per sollecitare qualche osservazione o risposta. Perché pur avendo vissuto accanto a medici una vita, di Sanità ne so troppo poco. Me ne offre spunto un ampio servizio di Marco Antonucci che oltre a essere un collega molto bravo è anche un mezzo parente. Come si faceva un tempo, al servizio di cronaca, aggiunge dati e dichiarazioni e quindi leggo sul CorrSiena di altre aggressioni al personale ospedaliero. Al Pronto soccorso di Nottola per l’esattezza.
E’ la Cgil Sanità a fare la segnalazione. Si stigmatizza, come giusto che sia, le mani messe addosso a un sanitario e si chiedono tutele più efficaci, la presenza di vigilanti, il controllo della forza pubblica, l’azione giudiziaria. Prima che sia troppo tardi. Il servizio del CorrSiena indica che le “aggressioni” – per tre quarti sono verbali, ma sempre sgradite a chi lavora – sono state in Toscana 817 nel 2021, 1258 nel 2022 e 2356 nel 2023, cioè sono cresciute del 154% nel primo intervallo e del 187% nel secondo.
Verrebbe di spiegarlo in parte con la maggiore accessibilità post Covid delle aree sanitarie e anche per la maggior attenzione al fenomeno – non è vero che il tutto è stato attenzionato solo da un paio di anni nelle indagini dei psicologi dell’Asl? -, ma Antonucci riporta anche una valutazione che Antonio D’Urso, ex dg dell’Asl Sud Est, ha fatto a Bari: “un tema prioritario per il Paese, bisogna metter in campo tutte le risorse per contrastare (…)”.
Viviamo una strana attualità, dove si conduce un’esistenza prevalentemente solitaria e dove il senso del collettivo tende a perdere di significati. E dove l’idea di poteri forti che prendono il controllo dei nostri consumi e delle nostre abitudini è più che una sensazione. Perché dunque aiutarli questi poteri forti chiedendo di aggiungere vincoli, limitazioni, paure e insicurezze a quelle che già ci sono?
Quanto siamo vicini alla scelta di un Daspo che ci tenga lontani dagli ospedali quanto dagli stadi? E rappresenterebbe poi la soluzione? Che vantaggi ci sono a rendere fortezze gli ospedali, quando la Sanità vuole uscirne per portare prevenzione e telesoccorso nelle singole abitazioni? E così facendo con quale immagine credibile suonerebbe alla nostra porta di casa?
In tutta la questione mi piacerebbe anche sentir parlare dell’altra faccia della medaglia che occasionalmente traspare sempre grazie alla ciclotimia di quest’informazione malus/bonus, cioè della disperazione di un parente che teme per la salute di un proprio caro, della sua ansia e della spesso cronica carenza di informazioni.
I disperati più che i prepotenti. Condizione questa che quando non è indotta è già di per se stessa esimente. Sono queste le persone che superano la misura della legalità e si rendono protagonisti di atti esecrabili e penalmente sanzionabili. Gli ospedali non sono il nuovo ring della malavita, sono solo i siti di incontro fra due categorie di popolazione – operatori e utenza – che sono entrambe vittime tanto di una congiuntura che di mala amministrazione.
La mia personalissima opinione è che tutta questa recrudescenza possa trovare molte spiegazioni ai piani alti degli ospedali. E per spiegarlo metterei insieme cose diverse. Per esempio la denuncia del NurSind di qualche mese precedente sulle carenze della pianta organica a Nottola (198 infermieri), ma anche i vani tentativi delle direzioni ospedaliere di alleggerire l’accesso ai Pronto Soccorso che sostanzialmente diventa solo uno scoraggiamento nel raggiungerli. Direi che le direzioni scaricano volentieri sui medici/sanitari in prima linea le pressioni dovute alla carenza di personale – che diventa folle tra i medici dell’emergenza -, servizi e prestazioni. Per cui è chiaro che conseguenza ne siano le intemperanze e le aggressioni, fisiche ma anche giudiziarie – cioè querele e denunce a tutto spiano – che sono le peggiori e spesso sono anche “temerarie”.
Capisco infermieri e medici, sottodimensionati, che non vogliono farsi carico della “cortese accoglienza” mentre fanno diversi lavori, di certo più necessari. Anche se per citare un caso, alla richiesta di un incontinente per una padella, una OTA, davanti a me, gli rispose di aspettare il proprio turno, facendone esclusiva questione cronologica nella chiamata.
Non capisco infatti la reattività verso il soggetto più debole. Capisco invece come i medici dell’emergenza siano diventati merce rara e continuino a essere pagati come gli altri, nonostante ore ed ore in più destinate al compimento dell’iniziato. A loro non viene neanche promesso di andare in pensione prima degli altri per un lavoro che è chiaramente usurante. E così i giovani – che possono scegliere – lasciano deserti i posti di specializzazione in medicina d’urgenza perché sanno che facendo il dermatologo o l’oculista possono dormire la notte e… non rischiare le intolleranze dei pazienti. Sì, il lavoro sarebbe quello di salvare le vite, ma non lo si rende conveniente anche se – almeno a detta del Governo – la spesa sanitaria continua a fluire copiosa.
Capisco l’utenza che varca un ingresso con ansia liberatoria e che poi non si sente neanche vista, perché il “ti vedo, so che sei lì, fra poco qualcuno verrà” spesso è un omissis. Ma non capisco quell’ignoranza colpevole sui servizi effettivi che la Società può darti o quell’abitudine italianissima per la via breve. I Pronto soccorso oggi sono divenuti l’unica porta di ingresso degli ospedali per essere ricoverati o per avere una visita più veloce. Richiedere al CUP una visita determina alle volte tempi biblici e allora si va scientemente al Pronto soccorso e si pretende la prestazione, ingolfando il servizio.
Un tempo esisteva il medico condotto che entrava in casa e visitava i pazienti. Era un tuttologo che sapeva sia cavare i denti che curare un bambino. Era lui che decideva se inviare il paziente in ospedale, era lui che contattava il reparto e concordava con il collega il ricovero. Adesso il medico di medicina generale sembra più un burocrate che sta alla sua scrivania a far ricette, certificati o richieste di esami e visite. Di fatto – sembrerebbe – delegare ad altri la salute dei propri assistiti. Il tutto è chiaramente opinabile, ma quando si arriva al pomeriggio del venerdì è un fatto che tutta la sanità cambi e che qualunque problema tocca a guardie mediche ed emergenza territoriale, anche se sono problemi prodotti dall’inizio di una diagnosi non conclusa da una cura.
Così, semplicemente, riterrei che la comunicazione ospedaliera potrebbe fare molto di più nei propri nosocomi e potrebbe anche spiegare con l’aiuto dell’informazione generalista dei concetti più ampi prima di affrontarli in emergenza. Ma bisognerebbe prima recedere da una situazione di ospedali blindati dal punto di vista mediatico e gerenti un monopolio dell’informazione unidirezionale dei policlinici. Il tutto giustificato da una necessità di riservatezza contro cui lotta per esempio l’abbastanza recente dichiarazione di Westminster.
Per esempio il Triage… Tutti hanno in mente che ti assegna un colore che determinerà la tua attesa della prestazione sanitaria, ma tutti sanno anche che è un primo vero test medico che è teso a comprendere il livello di urgenza? Credo sia raro che venga dato un “bianco” a chi dice di aver sbattuto la testa o che sente un dolore penetrante all’addome o un gorgoglìo della respirazione. Tuttavia rimane che quando, a fronte di un bisogno, c’è un’attesa in ospedale da far trascorrere, essa non risulta per nulla agevole; forse è quasi un sentirsi ostaggi.
Potrebbe poi esser data pubblicità al fatto che la struttura sanitaria può esser perseguita per indennizzi e non sempre ha ragione, così come esiste un servizio sia all’Aos che alla Asl denominato URP che è preposto a gestire lamentele e renderne conto ad autorità territoriali di controllo.
E poi c’è un’altra cosa da rendere pubblica e manifesta. Qualcuno in questi 4431 casi di maltrattamenti toscani in tre anni è riuscito ad abbreviare il tempo della propria attesa e ad avere soddisfazione nella propria aspettativa di salute?
Crediamo di no, quindi prima di mettere una guardia del corpo a ciascun infermiere spieghiamo bene agli italiani la cosa più semplice: che offendere e malmenare è deteriore e illegale, ma soprattutto NON SERVE A NULLA.