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lunedì, Maggio 12, 2025

Quando il dissenso diventa colpa e la cultura finisce sotto sorveglianza

Dalle polemiche pubbliche alla rimozione dalla Fondazione Ginori. Lo scontro tra il ministro Giuli e Montanari mostra i rischi di una cultura gestita come strumento politico, dove l’autonomia viene delegittimata

Può un ministro della Repubblica scontrarsi duramente con un rettore? Può farne una questione personale, fino a trasformare il dissenso in una colpa? La risposta, se vogliamo tenere in piedi l’impalcatura democratica, è semplice: no.

Il confronto tra politica e cultura è vitale. Anzi, è necessario. Ma ha le sue regole. Il potere politico deve poter discutere, anche contestare, visioni diverse. Ma non può – non deve – usarle come pretesto per rimuovere, escludere, delegittimare. È una questione di misura, di equilibrio, di rispetto reciproco.

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Il caso del rettore Tomaso Montanari e del ministro Alessandro Giuli segna un confine. E il rischio concreto è che quel confine sia stato superato.

Montanari è noto per la sua libertà di pensiero e per la coerenza con cui ha sempre espresso opinioni critiche verso ogni governo.

Giuli, presidente del MAXXI e oggi ministro della Cultura, ha invece più volte teorizzato una “rivoluzione conservatrice” anche nel campo dell’arte e della memoria collettiva. Nulla di strano, in astratto: è normale che ci siano visioni del mondo in conflitto.

Ma lo scontro tra i due è degenerato. Non è più una disputa culturale. È diventato un regolamento di conti. Prima le polemiche reciproche. Poi, nel marzo scorso, la rimozione di Montanari dalla presidenza della Fondazione Museo Ginori. Nessuna spiegazione seria. Nessun errore rivendicato. Solo un silenzio che sa di epurazione. Come se la sua colpa fosse aver pensato — e detto — qualcosa che il potere non gradiva.

Il nuovo presidente della Fondazione è una figura apprezzabile, ma con un curriculum lontano da quel progetto museale. Montanari, invece, era stato scelto proprio per le sue competenze e per l’impostazione scientifica e civica che aveva dato al lavoro. La sua rimozione appare così non come una decisione tecnica, ma come un messaggio politico: chi non si allinea, si toglie di mezzo.

Siamo davanti a un problema serio. Non tanto perché un ministro abbia un’opinione. Ma perché l’ha trasformata in un’azione che incide su ruoli pubblici, su spazi culturali, su istituzioni condivise. È il potere che si difende non con le argomentazioni, ma con le sostituzioni. Ed è così che il dissenso comincia ad assomigliare a una colpa.

Questa non è ancora censura nel senso formale del termine. Non c’è un bavaglio esplicito. Ma è una censura sostanziale, più sottile, più inquietante. Perché se chi dissente viene escluso, chi resta impara a tacere. E la cultura, se non è libera, diventa propaganda.

Il caso Montanari non riguarda solo lui. Riguarda l’idea stessa di cultura pubblica. O è uno spazio aperto a visioni diverse, anche antagoniste, oppure è un recinto riservato a chi sta con il governo di turno. In un tempo in cui il pensiero critico è spesso guardato con fastidio, difendere l’autonomia culturale non è un vezzo: è una necessità democratica.

Perché la democrazia ha bisogno di intellettuali liberi. E anche di ministri capaci di accettare la libertà degli altri.

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