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martedì, Maggio 6, 2025

Enrico Berlinguer, memoria che parla al futuro

Lezione di rigore e inquietudine morale, capace di riempire di senso la politica che pensava in grande

La memoria storica non è un album di ricordi, né un sacrario da cui trarre emozioni, ma una risorsa per interrogare il presente. Non sorprende, dunque, che la figura di Enrico Berlinguer continui a generare domande, a dividere, ad accendere affetti e contrasti. Ogni nuova narrazione – che ne ripercorre la vita e il pensiero – mette in evidenza una tensione tuttora aperta: tra chi vorrebbe chiudere con quel passato, considerandolo un ingombro, e chi invece insiste nel tenerlo vivo, quasi fosse una bussola in un tempo disorientato.

Ma forse il vero nodo non sta in questa contrapposizione. La domanda di fondo è un’altra: ha ancora senso oggi riflettere su quel patrimonio politico e ideale? E se sì, in che modo possiamo farlo senza trasformarlo in agiografia o in condanna?

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Berlinguer ha rappresentato una delle figure più complesse e originali della politica italiana del secondo Novecento. Fu protagonista di un tentativo ardito e incompiuto: ricondurre l’ispirazione comunista all’interno di una piena accettazione della democrazia parlamentare, cercando un punto di equilibrio tra trasformazione e istituzioni. Ma più che ai giudizi sul passato, oggi vale la pena chiedersi se alcuni nodi della sua riflessione non parlino ancora a chi cerca di dare senso alla politica nel nostro tempo.

Oggi viviamo in un mondo multipolare, segnato da nuove fratture, guerre e disuguaglianze globali. La crisi climatica impone di ripensare modelli di sviluppo. L’Europa stessa, da lui vista come orizzonte di autonomia dai blocchi, è attraversata da tensioni nazionaliste e spinte tecnocratiche. Il sud del mondo bussa con più forza alle porte della storia. In tutto questo, i grandi temi che Berlinguer seppe porre con anticipo – la pace, la giustizia globale, il rapporto tra etica e potere, la dignità del lavoro, il ruolo delle donne, il dialogo con le religioni, la sobrietà come progetto di vita – sono tutt’altro che superati. Anzi: non hanno ancora trovato una risposta politica all’altezza della loro urgenza.

Non si tratta di evocare una figura per nostalgia. Si tratta, semmai, di raccoglierne il metodo: la capacità di tenere insieme visione e realismo, ideali e contraddizioni, senza cedere né al cinismo né all’utopia cieca. Di fronte alla crisi della rappresentanza e alla sfiducia nella politica, il richiamo alla responsabilità etica – che per lui non era moralismo, ma coerenza – può risuonare oggi come proposta culturale prima ancora che politica.

La questione morale, così come l’aveva formulata, nasceva da un’analisi radicale del sistema politico e delle sue derive. Ma ciò che resta più attuale è il bisogno di una politica che si faccia carico del destino collettivo, che non riduca la democrazia a pura gestione del potere. Berlinguer parlava al Paese con un senso del tempo lungo, rivolgendosi alle generazioni future, convinto che la politica non fosse l’arte del consenso immediato ma il mestiere della trasformazione paziente.

Non mancarono, certo, contraddizioni. La difficoltà di sciogliere fino in fondo il legame con il mondo sovietico, le ambiguità sull’identità del partito, le rigidità del modello organizzativo, sono aspetti su cui la storia ha già esercitato il suo vaglio. Ma leggere queste ambivalenze con gli occhi del presente può restituire un’immagine più utile che non la ricerca di coerenze totali o di colpe definitive.

In un’epoca in cui i partiti faticano a radicarsi, in cui l’individualismo ha eroso la trama sociale, il tema dell’organizzazione politica e della formazione resta fondamentale. La sua idea di partito era quella di una comunità che educa, che forma, che costruisce senso. Oggi questo vuoto è stato occupato da altri attori – piattaforme digitali, influencer, algoritmi – che informano ma non formano, che aggregano ma non orientano.

Anche il lavoro, per Berlinguer, non era solo una questione economica, ma una chiave di cittadinanza, di riconoscimento, di dignità. In un tempo segnato da precarietà, automazione, sfruttamento globale, la sua idea di un’economia a misura d’uomo e non di profitto cieco può essere recuperata con nuova forza.

Infine, la sobrietà – che lui indicava come “nuovo modello di sviluppo” – non era solo un messaggio politico, ma un progetto culturale. In una società dei consumi senza limiti, dominata dalla bulimia dell’avere, questa intuizione si intreccia oggi con le grandi sfide ecologiche e con una ritrovata esigenza di equilibrio tra bisogni e risorse. La sobrietà, allora, come forma di libertà, come consapevolezza dei limiti e scelta di giustizia.

Rievocare Berlinguer, oggi, non significa rifugiarsi nel passato. Significa riconoscere che c’è stato un tempo in cui la politica osava pensare il futuro in termini collettivi, in cui si provava a tenere insieme libertà e giustizia, pensiero critico e spirito di servizio. Significa chiedersi se quella tensione, quell’inquietudine morale, non siano ciò di cui abbiamo ancora più bisogno oggi. Non per rifare il passato, ma per costruire qualcosa che gli assomigli nella passione, nel rigore, nella capacità di parlare ai giovani, alle donne, ai movimenti, al mondo che cambia. Insomma, per tornare a credere che la politica non sia solo gestione, ma visione. E che, anche per questo, vale la pena ricordare.

Non pretendo che tutto questo risuoni con la stessa forza in chiunque. So bene che certe riflessioni hanno preso forma, in modo particolare, tra coloro che si sono riconosciuti nella cosiddetta “generazione Berlinguer”, quella che visse quel tempo con coinvolgimento diretto. Capisco che per altri, più giovani o provenienti da altri percorsi, l’impatto sia diverso, magari più distaccato o critico.

E proprio in nome dell’onestà intellettuale, e di una memoria che non sia strumento ma interrogazione, vale ancora la pena ricordare. Non per celebrare, ma per continuare a cercare.

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