Un invito a leggere Pierluigi Piccini tra blocchi d’accumulazione, egemonia culturale e strategie mancate
Pierluigi Piccini, nel suo ultimo intervento pubblicato sul blog, sceglie di affrontare un nodo che da anni abita sotterraneamente il dibattito pubblico, senza che però si riesca mai davvero a scioglierlo. Il nodo è quello del rapporto tra sinistra, progetto politico e capacità di egemonia. Lo fa con un taglio netto, rifuggendo ogni prudenza consolatoria, come se volesse porre davanti allo specchio un campo politico che sembra spesso più intento a parlarsi addosso che a parlare al Paese. E proprio da qui nasce l’interesse per questo testo: dalla sua volontà di entrare nel merito, senza infingimenti, di ciò che manca, di ciò che si è smarrito, e di ciò che, volendo, si potrebbe ancora ricostruire.
La riflessione si muove lungo una linea ben definita: per incidere nella realtà servono due cose, un blocco sociale e produttivo su cui fondare un’ipotesi di trasformazione e un orizzonte culturale capace di produrre senso comune. Piccini sostiene che oggi la sinistra non possiede né l’uno né l’altro. È una diagnosi severa, ma non disfattista. Non c’è nel suo testo il gusto per la condanna o per il lamento, bensì una preoccupazione politica e, in fondo, anche civile. Siamo in un momento in cui l’egemonia culturale della destra si è consolidata, non solo nei salotti televisivi o nel linguaggio politico, ma soprattutto nella testa delle persone. È un’affermazione che non lascia spazio a molte repliche, e che invita chi legge a porsi una domanda scomoda: perché è accaduto?
Nel procedere della sua argomentazione, Piccini elenca gli strumenti che una sinistra degna di questo nome dovrebbe provare a costruire: politiche pubbliche, riforme economiche, proposte che agiscano concretamente sulle disuguaglianze. Ma ciò che più colpisce è il modo in cui queste proposte sono presentate non come un prontuario ideologico, bensì come esiti di una analisi delle forze in campo. Qui si intravede un approccio alla politica che torna a considerare il conflitto non come un fastidio da gestire, ma come il motore stesso della trasformazione. Allo stesso tempo, però, emerge anche una difficoltà nel dare concretezza al soggetto che dovrebbe farsi carico di questo compito. Chi tiene insieme oggi il popolo del lavoro, le periferie urbane e le nuove fragilità sociali? A questa domanda, il testo non fornisce una risposta chiara, ma suggerisce che senza un nuovo blocco storico, la sinistra rischia di parlare a vuoto.
Non c’è nostalgia nelle sue parole, né alcun richiamo salvifico alle vecchie glorie. Anzi, Piccini sembra dirci che l’unico modo per non restare intrappolati nel passato è prendere atto del presente, con le sue rotture e le sue metamorfosi. È proprio nel riconoscere che certi riferimenti novecenteschi non funzionano più che può nascere una sinistra nuova, capace di tornare a dire qualcosa sul destino collettivo. Per farlo, occorre però immaginare una strategia, individuare un campo di forze, stabilire un rapporto dinamico tra soggetti sociali, istituzioni e cultura. Non basta l’indignazione, né una generica attitudine riformista.
Vale la pena leggere questo intervento non perché offra soluzioni semplici o scorciatoie retoriche, ma perché chiama a un salto di qualità del pensiero e dell’azione. È una lettura utile anche per chi non ne condivide tutti i presupposti, proprio perché costringe a interrogarsi su dove siamo, e su dove potremmo andare. E lo fa con un linguaggio che, pur nella densità dei riferimenti, non si perde nel compiacimento intellettuale, ma resta legato alla realtà concreta del paese. Un buon punto di partenza, insomma, per chi ha ancora voglia di pensare la sinistra non come una nostalgia, ma come una possibilità.