Le scelte del Governo, le riserve dell’opposizione, i nodi aperti sul piano costituzionale e istituzionale
Nel panorama politico italiano, pochi temi accendono il dibattito come quello della sicurezza. È un argomento che tocca corde profonde, fatto di percezioni diffuse, ansie collettive, ma anche di esigenze concrete di ordine pubblico e convivenza civile. Proprio su questo terreno si è mosso il recente Decreto Sicurezza, approvato dal governo Meloni e ora al centro dell’attenzione politica e istituzionale. Non è un provvedimento qualsiasi: accorpa norme che erano già in discussione in Parlamento, le accelera, le rafforza, ma anche – secondo molti osservatori – le forza, sul piano del metodo e della sostanza.
L’obiettivo dichiarato della maggioranza è duplice: da un lato, dare una risposta rapida e visibile alla domanda di sicurezza che cresce in molte città italiane, soprattutto rispetto a fenomeni come le baby gang, l’aggressività nei confronti delle forze dell’ordine, il degrado urbano; dall’altro, marcare una linea politica coerente con l’identità del governo, che fa della fermezza e del rispetto dell’autorità uno dei suoi tratti distintivi.
In questo senso, le nuove aggravanti previste per chi aggredisce pubblici ufficiali in luoghi “sensibili” come stazioni o mezzi pubblici, le misure più severe contro i manifestanti violenti o contro gli ultras, sono pensate per rafforzare l’arsenale sanzionatorio dello Stato. Ma al tempo stesso mandano un messaggio: non ci sarà più tolleranza verso chi mina l’ordine pubblico o sfida apertamente le forze dell’ordine.
La scelta di usare un decreto-legge ha tuttavia suscitato reazioni immediate. L’opposizione, sia quella parlamentare che quella giuridica, ha sollevato dubbi seri.
Il primo è tecnico, ma non per questo meno importante: mancava, secondo molti, il presupposto costituzionale della “necessità e urgenza” previsto dall’articolo 77 della Costituzione. Le norme contenute nel decreto erano infatti già in discussione nelle commissioni competenti da mesi, e alcune da più di un anno. Perché allora ricorrere allo strumento straordinario del decreto-legge, che comprime i tempi del dibattito parlamentare e riduce lo spazio di emendabilità democratica?
Il secondo punto riguarda il contenuto. Alcune norme, come quelle che introducono aggravanti penali in modo piuttosto generico o che intervengono sul diritto di manifestare, rischiano di entrare in rotta di collisione con principi fondamentali: il principio di tassatività in materia penale, il principio di riserva di legge, il diritto costituzionale di riunione.
A queste perplessità si aggiungono quelle di alcuni giuristi, che leggono nel decreto una tendenza più ampia e preoccupante: quella a trasformare la sicurezza in una categoria totalizzante, capace di giustificare qualsiasi compressione delle libertà personali, anche al di fuori dei contesti emergenziali. Una visione securitaria che, pur essendo rassicurante per una parte dell’opinione pubblica, rischia di spostare il baricentro del nostro sistema costituzionale, sottraendo spazi alla garanzia dei diritti e alla centralità del Parlamento.
Non mancano, inoltre, possibili conflitti istituzionali. Alcuni magistrati hanno già sollevato dubbi di legittimità costituzionale in casi concreti. C’è chi, Presidente della Repubblica, pur avendo firmato il decreto, potrebbe scegliere di rinviare alle Camere la legge di conversione se dovesse ravvisare profili critici non superati. Anche la Corte costituzionale, se investita del tema, potrebbe intervenire, aprendo un fronte di contenzioso tra potere legislativo ed esecutivo. E infine resta aperta la questione europea: se le norme dovessero apparire lesive dei diritti fondamentali, non si può escludere una procedura d’infrazione da parte dell’Unione.
In definitiva, il Decreto Sicurezza rappresenta una scelta politica forte, che punta a consolidare un’immagine di governo operativo e determinato. Ma questa forza d’azione deve fare i conti con la tenuta delle garanzie costituzionali, con l’equilibrio tra i poteri dello Stato, con il rispetto delle forme e dei tempi del confronto democratico. Non si tratta solo di un decreto: si tratta, ancora una volta, di che idea di Stato vogliamo affermare, e di quanto siamo disposti a sacrificare – in nome della sicurezza – ciò che la Costituzione ci chiede invece di tutelare con maggiore vigilanza proprio nei momenti difficili.