Oltre il patriarcato: tra adattamento alle strutture esistenti e la possibilità di un nuovo modello di governo
Intorno all’8 marzo, da più parti mi è arrivato un interrogativo, sempre con le stesse parole, che per praticità ho sintetizzato così: “se l’essenza del patriarcato è stata la guerra, perché le donne che oggi guidano stati e continenti non dimostrano che la loro essenza è la pace?
Chiari i riferimenti all’attualità, ma non è questo ciò che mi interessava. Mi intrigava il tema del ruolo delle donne nella leadership globale e nei conflitti. A suo modo, penso che rappresenti una delle questioni più complesse e controverse del nostro tempo. Esiste davvero un’essenza della leadership femminile? Oppure il problema risiede nelle strutture di potere che impongono certi comportamenti, indipendentemente dal genere?
Conviene esplorare le interazioni tra genere, potere e conflitto, analizzare l’eredità del patriarcato, le contraddizioni delle donne al potere, gli stereotipi di genere, le testimonianze di resistenza e resilienza, i dilemmi etici e politici della violenza, e le prospettive per trasformare il concetto stesso di potere e ritrovare un futuro di pace globale?
Una volta che la questione prende forma, almeno nei termini di domanda, nasce il tema del come affrontarla. Un giro di WhatsApp con una vecchia amica, con lunga una militanza nel femminismo. Non ultimo il fatto che nel tempo, ha divorato saggi, romanzi e letteratura su questi temi.
Con lei, in un colloquio a distanza, mi avventuro su un terreno non proprio mio: quello di rispondere a queste domande attraverso un’analisi critica, interrogando il pensiero di donne che su questi temi hanno agito, parlato e scritto. Con voci diverse, che talvolta hanno aperto nuove prospettive sul ruolo delle donne nella costruzione di un mondo più giusto e pacifico.
Quello che segue è il risultato di questi scambi e confronti.
Il patriarcato, come struttura sociale e culturale, ha nelle sue fondamenta una visione gerarchica che associa il dominio maschile alla forza, alla violenza e alla guerra. Da secoli, la storia dell’umanità è stata modellata da questa logica, che ha utilizzato la guerra non solo come strumento di espansione territoriale, ma come mezzo per legittimare la dominazione.
Il patriarcato non è semplicemente una questione di uomini contro donne, ma un sistema che plasma e condiziona il modo in cui la società interpreta il potere, la violenza, la protezione e la cura. Le istituzioni che regolano il nostro mondo – dai governi alle aziende, dalle strutture militari alle religioni – sono, in gran parte, costruite su un paradigma patriarcale che ha fatto della guerra un’istituzione legittima e del conflitto una modalità di risoluzione.
Le riflessioni di Carla Lonzi, Lea Melandri, Carol Cohn e Cynthia Enloe ci portano a comprendere come la violenza sia non solo una caratteristica del patriarcato, ma anche il suo motore. Lonzi, ad esempio, denuncia come la violenza sia una componente imprescindibile del patriarcato, che sfrutta e condiziona le donne per mantenere la propria egemonia. Melandri, analizzando la relazione tra violenza di genere e violenza sociale, solleva l’importante questione della guerra come una manifestazione estrema di questa violenza sistemica. Cohn, osservando il linguaggio militare, ci mostra come le parole e le metafore utilizzate per descrivere la sicurezza nazionale e la guerra siano intrinsecamente sessiste, contribuendo a rafforzare l’idea che la guerra sia una questione di uomini e che la violenza, in fondo, sia un fenomeno naturale nella politica e nella leadership.
Eppure, come suggerisce Luisa Muraro, potrebbe esserci un’alternativa, una possibile visione del potere femminile che non sia radicata nella distruzione ma nella generazione e nella cura. La sua affermazione – “Io ho messo al mondo il mondo. Come posso volere che sia distrutto?” – diventa emblematica: le donne, che hanno esperienza diretta di creazione e cura, possono forse immaginare un tipo di potere che sia diverso, più cooperativo, più orientato al benessere collettivo. La sua proposta sembra suggerire che l’essenza della leadership femminile non debba essere vista come un contrasto al patriarcato, ma come una possibilità di riscrivere il potere stesso, lontano dalla logica del dominio e della violenza.
Tuttavia, il patriarcato non è solo un sistema che impone una visione dominatrice, ma una struttura di potere che condiziona tutti, uomini e donne. È proprio questo il punto che non possiamo ignorare: le donne che raggiungono il potere, purtroppo, non sono esenti da questa struttura. Le stesse logiche di potere che dominano nella politica e nelle istituzioni spingono chiunque vi entri a conformarsi a un sistema che premia la forza, la competizione, la guerra e la violenza, non importa se chi lo esercita è un uomo o una donna.
Questo fenomeno non può essere spiegato solo come una questione di biologia o di “essenza” femminile, ma piuttosto come il risultato di un sistema che si autoregola e che premia chi riproduce le sue leggi. Le donne che arrivano al potere devono affrontare un doppio dilemma: il primo riguarda la necessità di adattarsi al sistema patriarcale per emergere, il secondo riguarda il “fardello della rappresentanza”, cioè l’aspettativa che esse siano migliori degli uomini, che incarnino una virtù morale superiore. Tuttavia, come osservato nel caso di Margaret Thatcher o di altre donne leader in contesti di conflitto, non sempre il potere femminile sfida i paradigmi dominanti: le donne, anche se al potere, possono finire per riprodurre gli stessi modelli di violenza e aggressività tipici della leadership patriarcale.
In questo contesto, la domanda centrale diventa: come sia possibile costruire forme di potere che non si fondino sulla violenza, ma sulla cooperazione e sulla relazione? La risposta non sta nel cambiamento delle persone al potere, ma nel ripensare la stessa struttura del potere. Le esperienze di donne come Leymah Gbowee, che ha guidato un movimento di pace in Liberia, mostrano che è possibile creare forme di resistenza nonviolenta che siano alternative alla guerra. La sua leadership non si basa sulla forza militare, ma sulla capacità di mobilitare le persone intorno a un’idea di giustizia e pace.
Eppure, il potere che si fonda sulla cura, come proposto da Bell Hooks, non è immune dai rischi di essere strumentalizzato. La cura, nella sua forma più pura, è certamente una pratica che può suggerire una leadership diversa, ma nel mondo contemporaneo, dove la cura è spesso sfruttata senza riconoscimento, la sua capacità di trasformare la società è limitata. Il lavoro di cura, tradizionalmente associato alle donne, è infatti stato storicamente sottovalutato, reso invisibile, e solo recentemente se ne sta iniziando a riconoscere il valore, anche se spesso in modo insufficiente.
La sfida, dunque, non è solo quella di accedere al potere, ma di ridisegnarlo. Non basta che le donne abbiano l’opportunità di diventare leader; bisogna ripensare il potere stesso, in modo che non sia più legato alla violenza, alla guerra e alla sopraffazione. Come suggerisce Nancy Fraser, non basta più chiedere l’inclusione delle donne nelle strutture esistenti, ma bisogna ridefinire completamente quelle strutture, rendendole più giuste, più collaborative, più attente alle necessità umane e ambientali.
In definitiva, il patriarcato non è solo un sistema che opprime le donne, ma è una logica che permea tutta la struttura della nostra società. Affrontarlo richiede una revisione profonda non solo del potere politico, ma delle relazioni sociali, economiche e culturali. Le donne, con le loro esperienze di cura e relazione, possono certamente offrire una visione alternativa del potere, ma affinché questa visione possa davvero trasformare la società, è necessario un cambiamento che vada oltre il singolo individuo al potere e tocchi le fondamenta stesse del sistema che lo sostiene