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venerdì, Maggio 30, 2025

Silenzio e l’abbandono: Gaza, l’Italia e il futuro della pace

Dopo mesi di massacri, il nostro ruolo internazionale è evaporato. Cosa potrà mai nascere da tanta distruzione? Il tempo per scegliere da che parte stare sta finendo

C’è un punto in cui le parole si rompono. Quando le immagini superano la soglia dell’umanamente tollerabile, quando i numeri non riescono più a contenere l’orrore, quando il dolore diventa così vasto da non potersi più nominare senza tradirlo. A Gaza si è superato quel punto da mesi. La parola “genocidio”, prima sussurrata da chi denunciava l’indicibile, oggi campeggia nei documenti della Corte internazionale di giustizia. Eppure, la macchina della diplomazia europea – e italiana in particolare – continua a muoversi come se nulla fosse, come se la distruzione sistematica di un popolo non stesse accadendo davanti ai nostri occhi.

In meno di otto mesi, sono stati uccisi più di 35.000 palestinesi, la maggior parte dei quali donne e bambini. Interi quartieri rasi al suolo, ospedali presi di mira, convogli umanitari bloccati, giornalisti uccisi mentre cercavano di raccontare. E adesso Rafah, l’ultimo rifugio per centinaia di migliaia di sfollati, sotto assedio. Un’intera popolazione viene deprivata di acqua, cibo, elettricità, cure, diritti. E di voce.

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Nel frattempo, in Italia il dibattito politico resta confinato nella retorica dell’equilibrismo, nell’ambiguità complice di chi non osa disturbare gli equilibri atlantici o rompere la narrazione di una “difesa” israeliana che ha da tempo smesso di avere alcun rapporto con il diritto internazionale. Non una parola chiara, non una presa di posizione autonoma, non un’iniziativa diplomatica italiana che si distingua nel chiedere il cessate il fuoco immediato, la protezione dei civili, la fine dell’assedio.

L’Italia, un tempo interlocutore credibile nel Mediterraneo, ora pare paralizzata, appiattita sulle posizioni di chi riduce la questione palestinese a un fastidio ideologico, o peggio ancora a una colpa collettiva da estirpare con la forza. Ma si può davvero pensare che la sicurezza – quella di Israele, ma anche quella dell’intera regione – possa fondarsi sulla cancellazione di un popolo?

In queste settimane, mentre la Corte internazionale dell’Aia riconosce la plausibilità di un genocidio in corso e ordina a Israele di sospendere l’assalto a Rafah, i governi europei oscillano tra la cautela formale e il sostegno sostanziale a Tel Aviv. Solo alcuni, come la Spagna e l’Irlanda, iniziano a muovere passi verso il riconoscimento dello Stato di Palestina. L’Italia tace. Ma questo silenzio non è neutrale: è una scelta. Una scelta di abbandono.

E intanto si moltiplicano le domande. Come si potrà parlare domani di “processo di pace”, quando oggi si consente la distruzione sistematica di ogni possibilità di convivenza? Come si potrà ricostruire, non solo fisicamente ma anche politicamente e moralmente, una regione devastata dall’odio e dall’impunità? Chi raccoglierà il testimone della diplomazia umana, quella che antepone i diritti universali ai calcoli geopolitici?

Il rischio non è solo l’annientamento di Gaza, ma anche la perdita, per l’Europa e per l’Italia, di ogni credibilità come attori di pace. Non basta invocare la “soluzione a due Stati” come se fosse un mantra vuoto, mentre uno dei due viene ridotto in macerie. Non basta parlare di “diritto alla difesa” quando la difesa diventa annientamento, vendetta, occupazione perpetua.

Il tempo delle ambiguità è finito. O si sta dalla parte della vita, della legalità internazionale, della dignità dei popoli, o si è complici di ciò che nega tutto questo. Non servono più equilibrismi, ma coraggio. Un coraggio politico, morale, umano. L’Italia, la sua diplomazia, la sua coscienza pubblica, sono chiamate a una scelta che non può più essere rimandata.

Perché Gaza brucia. E con essa, brucia anche la nostra idea di umanità.

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