Ezzideen Shehab a Jabalia, affida a X un grido disperato: «Non siamo stati silenziati. Il mondo saprà ciò che ha scelto di non vedere»
A volte sentiamo il bisogno di parlare, ma non troviamo le parole. Non perché manchino davvero, ma perché si inceppano, paralizzate da una paura di banalizzare. In quei momenti, allora, ci aggrappiamo alle parole degli altri. Le prendiamo in prestito.
In queste settimane, tra tante notizie ci è arrivato — quasi per miracolo — un messaggio da Gaza. Lo ha scritto Ezzideen Shehab, medico e scrittore di Jabalia, e lo ha affidato a X come un naufrago affida una bottiglia al mare. È un grido. Ma è anche un testamento. Un atto contro l’oblio.
Pubblicarlo oggi non è un atto giornalistico, né una scelta editoriale. È più un dovere umano. È un modo per raccogliere quella voce, darle ospitalità. Quello che sta accadendo a Gaza non è solo una tragedia, è una cancellazione. E questa cancellazione, come ci ricorda Shehab, passa anche dal silenzio. Ma non tutti i silenzi sono uguali. Alcuni vanno rotti. Altri vanno ascoltati. Altri ancora vanno semplicemente fatti risuonare, con rispetto.
Le parole che seguono non chiedono commenti, né interpretazioni. Chiedono solo attenzione. E memoria…
“Non c’è internet, nessun segnale, nessun suono. Nessun mondo fuori da questa gabbia.
Ho camminato 30 minuti tra le macerie e la polvere. Non in cerca di una fuga, ma per un frammento di segnale, giusto per sussurrare: “siamo ancora vivi”. Non perché qualcuno stia ascoltando, ma perché morire inascoltati è la morte finale. Gaza è in silenzio ora. Non per pace, ma per annientamento. Non un silenzio di quiete, ma di soffocamento. Hanno tranciato l’ultimo cavo. Nessun messaggio esce, nessuna immagine entra. Anche il lutto è stato vietato. Ho sorpassato cadaveri di edifici, di case, di uomini. Qualcuno respirava, qualcuno no. Tutti cancellati dalla stessa mano che ha cancellato le nostre voci. Questo non è semplicemente un assedio di bombe, è un assedio della memoria. Una guerra contro la nostra capacità di dire “siamo qui”. I bombardamenti non si sono mai fermati, soprattutto a Jabalia. Hanno bombardato le strade dove i bambini supplicavano per del cibo. Hanno bombardato le file dove le mamme aspettavano la farina. Hanno bombardato la fame stessa. Niente cibo. Niente acqua. Niente via di fuga. E quelli che ci provano, quelli che raggiungono gli aiuti, vengono abbattuti. La gente muore qui, e nessuno lo sa. Non perché le uccisioni si sono fermate, ma perché l’uccisione della connessione ha avuto successo. Internet era il nostro ultimo respiro. Non era un lusso, era l’ultima prova della nostra umanità. E ora è andata. E nel buio, massacrano senza conseguenze. Ho trovato questo tenue segnale con la eSIM come un uomo morente trova un bagliore di luce. Sto sotto questo cielo spezzato, rischiando la morte non per salvarmi, ma per mandare questo messaggio. Un singolo messaggio, un’ultima resistenza. Se state leggendo questo, ricordatelo: abbiamo camminato in mezzo al fuoco per dirlo. Non siamo stati in silenzio. Non siamo stati silenziati. E quando la connessione sarà ristabilita, la verità sanguinerà attraverso i cavi, e il mondo saprà quello che ha deciso di non vedere”.