Le “impertinenti e medianiche intervistatrici di pietre” sedotte a Napoli da una costruzione che si è tramandata alla modernità dopo aver visto molto
Mai sazie, Olga ed io continuiamo a vagare, trascinate dal flusso delle sensazioni, alla ricerca di luoghi il cui richiamo ci attrae come il canto delle sirene. Luoghi non luoghi, posti che vibrano, che parlano, al di là del loro apparente immobilismo.
Palazzi in cui risuonano ancora gli echi di passioni, tradimenti, amori, sogni, paure, desideri delle anime che li hanno abitati. Oggi abbiamo deciso di sederci metaforicamente di fronte alle porte di una delle più famose dimore storiche della città di Napoli: Palazzo Sansevero.
Di sederci ed aspettare che le sue mura iniziassero piano piano a prendere confidenza con noi e a raccontare la loro storia. Ed è stato proprio quando le ombre della notte si sono insinuate, feline, tra i vetusti vicoli della vecchia Napoli, quando è cessato il traffico giornaliero e la città si è immersa in un’atmosfera magicamente sospesa, quando qualcuno ha giurato di udire e intravedere cose non umane, che noi abbiamo iniziato a sentire la voce di questo posto.
Napoli, città affascinante e ricca di misteri, luogo in cui si percepisce la labilità del “limes” tra Vita e Morte; Vita e Morte che sembrano danzare insieme mostrandoci che il passaggio dall’una all’altra forse non è così inesorabilmente definitivo come si crede. Superfluo chiedersi se sia Superstizione o Realtà. E’ un qualcosa che si percepisce con l’anima ed in quanto tale dotato della verità del noumeno che nessun fenomeno esterno potrà mai scalfire.
Palazzo Sansevero, sebbene appaia ancora immobile, pare lentamente iniziare a fidarsi di noi; sembra aver capito che le nostre intenzioni non sono quelle di guardarlo con uno sguardo fugace e distratto di chi viene per ammirare solo il suo aspetto esteriore, ma sono mosse dal desiderio di contaminare la nostra anima con la sua.
Sentiamo che ci ha dato il permesso di parlargli, così iniziamo chiedendogli: raccontaci di te….
Austero e incuriosito così comincia: “Le storie che mi accingo a narrarvi sono, unitamente alla mia, quelle di alcuni celebri personaggi la cui vita animò e, secondo alcuni, anima ancora, le mie mura: il principe alchimista Raimondo di Sangro e, secoli prima, la bellissima Maria d’Avalos e il malinconico musicista Carlo Gesualdo, che ne troncò la giovane vita”.
Si rivolge a noi con l’eleganza tipica dei nobili napoletani, in modo molto affettato, educato ma al tempo stesso non celando il suo status di superiorità… “Sapete. In quella che era la piazza più antica di Napoli, il primo principe di Sansevero, Giovan Francesco Paolo di Sangro, nella prima metà del XVI secolo, volle erigere un palazzo, sfruttando un vastissimo giardino che possedeva in quel luogo. Sorsi così, su quello che era stato, in età ellenica, un tempio dedicato al culto di Iside, inglobandone nelle mie fondamenta, ciò che restava”.
Chi curò il progetto della tua costruzione?
“Fu affidato all’architetto Giovanni Merliano da Nola che inserì, su disposizione del Principe, accanto alla lussuosa fabbrica principale, un secondo edificio, chiamato Palazzo Piccolo. I Sansevero dimoravano nel palazzo principale, cioè nelle mie sale imponenti, mentre l’attiguo Palazzo Piccolo, altrettanto notevole, era stato destinato all’affitto per gente altolocata. Rimase anche lo spazio per una piccola cappella votiva, che avrà un ruolo importante nelle vicende che vi narrerò”.
Tace un attimo, come incupito, poi ricomincia: “Arcane credenze sostengono sia sacrilego costruire su aree che un tempo furono sacre, poiché tale oltraggio alla divinità scatenerebbe forze negative e distruttive. Alla luce dei tragici avvenimenti che ebbero luogo tra queste mie mura, ormai secolari, non posso negare che Iside, dea dell’amore e della passione, abbia fatto in modo di esigere il suo tributo umano. L’aura di “palazzo maledetto” mi venne attribuita già poco tempo dopo la mia costruzione, nel 1590, a causa di quello che fu considerato il delitto più eclatante del tempo, per la sua efferatezza”.
Noi conosciamo la storia di questo delitto, ma siamo curiose di sentire la sua versione dei fatti. Dunque, gli chiediamo: ti preghiamo, parlaci di questo dramma…
“I protagonisti di questa tragedia appartenevano all’alta aristocrazia partenopea: Carlo Gesualdo, principe di Venosa, sua moglie Maria d’Avalos e il duca d’Andria, Fabrizio Carafa. Il padre di Maria, don Carlo d’Avalos, di antica nobiltà castigliana, era un personaggio di spicco nel Vicereame, tanto da poter vantare come padrino di battesimo lo stesso imperatore Carlo V. Aveva inoltre, partecipato alla battaglia di Lepanto, fregiandosi di una notevole gloria militare. Maria, d’altro canto, come molte sue coetanee di nobili natali, era divenuta, neanche adolescente, pedina nello spregiudicato intreccio di politiche matrimoniali, ordito dalle potenti famiglie che dominavano la scena politica dell’ epoca”.
“Rimasta vedova ben due volte – continua -, e avendo perso prematuramente i due figli nati dalla prima unione, fu deciso per lei un nuovo matrimonio, con il cugino Carlo Gesualdo. Poiché la suocera era anche sua zia materna, fu necessaria una dispensa papale per la celebrazione del matrimonio, vista la parentela così affine degli sposi. Fu quindi un matrimonio senza amore, che mal conciliava l’indole vivace e solare di Maria con quella ombrosa e malinconica dello sposo, tra l’altro più giovane di lei di quattro anni. Carlo, in realtà, il suo grande amore lo aveva già: la musica. Spesso, il suo essere protagonista e carnefice in una vicenda così terribile, mette in ombra la sua vera essenza: Carlo Gesualdo fu il più grande madrigalista della sua epoca, per le sue fini ed intuitive innovazioni stilistiche che, secondo gli esperti, precorsero i tempi. Carlo si dedicava alla musica per ore con una passione rasentante l’ossessione. Eccelso suonatore di liuto, fu un autore particolarmente fecondo: 6 libri di madrigali e 3 di musica sacra, oltre a quelli andati perduti. Musicò molti sonetti dell’amico Torquato Tasso. Celebrato il matrimonio, i giovani sposi si stabilirono tra le mie mura. I primissimi anni trascorsero sereni, quasi felici, allietati dalla nascita del piccolo Emanuele e scanditi da feste e doni preziosi del principe alla consorte”.
Tace e allora l’incalziamo, incuriosite ed assorte dal suo racconto e soprattutto dall’enfasi e dal trasporto che ci trasmette. Cosa accade dopo?
“Qualcosa cambiò. Vidi Carlo ritrarsi ancor più in sé stesso, il viso pallido, più della gorgiera che costituiva l’unico tocco di colore su un abbigliamento altrimenti nero, come l’angoscia che covava nella sua anima. Maria, sempre più distante, presa dal tedio verso quel consorte privo di attrattive, freddo ed assente, il cui sguardo spento sembrava animarsi, come brace sotto la cenere, solo davanti ai suoi infiniti spartiti o pregustando una battuta di caccia. Non ancora trentenne, Maria era nel fiore della sua bellezza, decantata come eccezionale dai cronisti dell’epoca, e il suo spirito sensuale anelava alla Vita. Durante una festa organizzata dalla nobiltà partenopea, conobbe un giovane, Fabrizio II Carafa, la cui avvenenza era tale da fargli meritare il soprannome di “Arcangelo”. Tra i due divampò la passione, nonostante anche Fabrizio fosse sposato e padre di 4 figli. Per Maria, che aveva vissuto tutta la vita tra convenzioni e obblighi imposti dal suo status elevato, questo amore ricambiato, significò, forse riappropriarsi di quelle emozioni che le erano state troppo a lungo precluse. Ben presto la relazione clandestina divenne di dominio pubblico; solo Carlo, ignaro, era immerso nelle sue composizioni polifoniche. Provvide ad informarlo, non senza una punta di maligno compiacimento, l’anziano zio Giulio Gesualdo, che invaghito della giovane donna, si era visto rifiutare con sdegno le insistenti offerte amorose. L’orgoglio ferito del principe di Venosa ordì, così, una terribile vendetta: annunciò che si sarebbe trattenuto due giorni, per una battuta di caccia, lontano da casa, per poi piombare, invece, senza preavviso, in piena notte, a palazzo, sorprendendo gli incauti amanti. Era la notte del 16 ottobre 1590. Gli sgherri del principe, armati di archibugi e pugnali, ad un cenno del loro signore, si avventarono su Maria e Fabrizio, assassinandoli e facendo scempio dei loro cadaveri”.
E allora Palazzo Sansevero tace, cupo, come trafitto lui stesso da quel terribile lutto cui era stato testimone silenzioso ed inerte. Anche noi rimaniamo in silenzio… qualche istante, colpite dal suo dolore, vedendoci scorrere davanti agli occhi la scena appena raccontata. Ma dopo un lunghissimo attimo di opprimente silenzio, riprende da solo: “Non pago della carneficina, Carlo ordinò che i poveri corpi, nudi e insanguinati, rimanessero esposti per alcuni giorni, sulla mia scalinata d’ingresso, al pubblico ludibrio e a dimostrazione che l’onore della famiglia e l’onta del tradimento erano stati lavati con il sangue. Una macabra leggenda sostiene che alla sventurata Maria, a cui la tragica fine non aveva sottratto la rara bellezza, non venne risparmiato l’oltraggio della violenza post mortem. Molti la avevano desiderata invano, invidiando il bel Carafa che era riuscito a conquistarne i favori e, soprattutto, il cuore. Non so dirvi con certezza se questo sia mai accaduto. Non riuscii a guardare. Lo strazio per quell’anima che aveva solo anelato alla gioia, che aveva solo tentato di vivere al di là delle convenzioni imposte al suo ruolo, per me era troppo. Sentivo l’odore del suo sangue, il peso del suo corpo ormai gelido e immobile posato su di me, sentivo i commenti dei passanti, ma non osavo guardare. Guardarla sopraffatta dalla cattiveria sarebbe stato troppo per me”.
Anche per noi appare essere troppo. Maria, trucidata ed esposta al pubblico ludibrio solo per non essersi arresa a morire in una vita senza vita, solo per aver detto si a quel moto di passione che le aveva acceso l’anima dando un senso vero ai suoi giorni.
Palazzo Sansevero abbassa gli occhi. Ci sembra di scorgere una lacrima rigare i suoi mattoni. Poi, fissandoci, quasi con disprezzo, riprende: “Voi umani non finirete mai di stupirmi, per come riusciate a celare dentro abissi così orridi e insondabili, dietro un’apparenza tranquilla e comune. Forse, semplicemente, non ne avete coscienza. Noi siamo pietre senza segreti, che voi impregnate con le vostre esistenze e i vostri umori, rendendoci testimoni involontari del vostro passaggio”.
Poi di nuovo tace. Il cielo inizia a colorarsi di una rossa alba. Prese dal racconto del Palazzo, non ci siamo accorte che la notte è volata via come una folata di vento. Napoli si sta risvegliando dal torpore della notte e il nostro interlocutore lentamente torna al suo immobilismo. Torna ad essere solo un Palazzo, un bellissimo Palazzo, ma pur sempre solo pietra. Ma prima di chiudersi di nuovo nel suo silenzio cristallizzato dalle mura, percepiamo un ultimo sussurro…. “Vi aspetto quando l’oscurità tornerà a proteggerci dallo sguardo degli indiscreti. Se volete sapere cos’altro ho da raccontarvi, tornate. Puntuali. Quando il sole di nuovo lascerà lo scettro alla luna ed alle stelle”.
Come imbambolate, ci incamminiamo verso il fragore di una città che già si è svegliata. Ritorniamo nel mondo usuale, dove i muri sono solo muri ed a parlare sono solo le persone. Ma l’oscurità tornerà a breve. E noi saremo di nuovo lì, catapultate nel mondo di Palazzo Sansevero che parla, assetate di bere la storia di questo posto dalla sua voce. Voce che ora, di giorno, potreste giurare che non esiste, ma che noi, di notte, siamo certe di aver sentito. Forte e chiara. Voce che esiste, come quella delle persone che ora, di giorno, incrociano i nostri passi.
(1 – continua)