Il viaggio di #andataeritorno tra fortezze, pendii scoscesi e chiese create in funzione bellica
Per #andateritorno proseguo nel mio vagare in insoliti luoghi dell’Armenia. Dopo il lago Sevan, oggi vi porterò in un castello rimasto inespugnato per ottocento anni e in una particolare chiesa costruita per la pugna.
Armenia – La fortezza di Smbataberd e la chiesa dei cavalieri
Fortezze e monasteri: in questo paese sembra non esserci altro. Chiese medioevali punteggiano le campagne, e lo spazio interstiziale è riempito da paesaggi fantastici.
Saliamo e scendiamo montagne su strade così rattoppate che il tappeto di asfalto sembra nato così, a pezzi, come le tessere di un patchwork, tutte di diversa misura.
Sono partito di buon’ora con un giovane amico che mi accompagna. L’aria è fresca, costeggiamo il lago, e in alto le montagne sono ancora coperte di neve. Chiudiamo bene le giacche e iniziamo la salita verso la catena montuosa Vardenis: il passo di Selim è il nostro primo obiettivo.
Rotondi tornanti ci cullano. Il paesaggio che ci circonda è un’immensa distesa d’erba, e nessun albero ricopre le levigate montagne. Facciamo una divagazione nei campi: sopra la corta erba, un’aquila appollaiata su una pietra ci guarda passare, gira la testa e ci segue con lo sguardo.
Appena rientrati sulla carreggiata, raggiungiamo la cima. Due curve più in basso scopriamo il caravanserraglio, una bassa struttura di pietra costruita per offrire riparo ai viandanti.
Il complesso ha una pianta quadrata, pareti e tetto di grigia pietra. Non ci sono finestre, solo alcuni camini che illuminano flebilmente l’inclinata corsia centrale, usata come percorso di accesso e scolo dei liquami, con ai lati piccoli locali bui che fungevano da riparo per gli uomini.
La promiscuità tra uomini e animali in uno spazio così ristretto e senza una ventilazione adeguata doveva essere davvero opprimente: la combinazione di odori di sudore, fieno, escrementi e cibo in decomposizione, il tutto amplificato dall’isolamento dei viaggiatori, che cercavano riparo dalle intemperie per giorni o persino settimane, nelle lunghe tratte commerciali.
Eppure, per quei viaggiatori, il caravanserraglio rappresentava una sorta di rifugio sicuro e prezioso. In una zona così remota, era un baluardo contro le difficoltà del viaggio: freddo, banditi e l’impervio paesaggio montuoso. In questi contesti, anche i sacrifici più scomodi erano preferibili alla completa esposizione agli elementi.
La Valle di Yeghegis appare laggiù, in basso, alla fine di una serie infinita di curve e controcurve. Sembra un’oasi: alberi e povere case emergono tra le brulle montagne.
Deviamo per un tratturo che risale il fianco di una ripida montagna.
Voglio raggiungere la fortezza di Smbataberd. Una piccola freccia di legno con l’inconfondibile figura di un tracker indica che la strada è finita e che qui inizia la parte pedonale. Decidiamo di proseguire comunque con la moto, forse ce la possiamo fare. Guadiamo un piccolo torrente e ci inerpichiamo su per una sassicaia. Alla terza caduta, il mio compagno molla, continuo da solo. Guadagno il crinale: da ambo i lati c’è un vertiginoso strapiombo. Arrivo in cima fradicio di sudore.
Le mura della fortezza copiano il profilo della montagna e una ripida scala porta al grande arco d’ingresso. Passeggio sulle mura: le case del villaggio di Shatin, centinaia di metri più in basso, sono piccoli puntini. Il panorama ripaga ampiamente la durezza del percorso.
Arrivato sulla cima, capisco come questa fortezza abbia potuto resistere e proteggere la valle per più di 800 anni. I ripidissimi fianchi della montagna e le mura la rendevano inespugnabile, e un ingegnoso sistema idrico portava l’acqua all’interno da sorgenti poste più in basso.
Leggenda vuole che fu espugnata con uno stratagemma: assetando un mulo locale e poi lasciandolo libero affinché individuasse la fonte d’acqua sotterranea della fortezza. Dopo averla individuata, gli assediatori Selgiuchidi riuscirono a bloccarla, costringendo gli assediati alla resa.
Ridiscendo al villaggio di Yeghegis con non poca fatica. Lungo la strada recupero l’amico e andiamo a visitare alcune chiese disperse tra i campi, in un contesto di rara bellezza, tra ombrose strade contornate di muri a secco.
Camminiamo lungo i campi e più volte ci perdiamo. Due volte chiediamo aiuto a un contadino e a un pastore, che ci rimettono sulla giusta via. Poi, sotto un enorme noce che la nasconde alla vista, troviamo la Zorats Church.
Zorats significa “potente”. Costruita nel XIV secolo, questa chiesa fu progettata specificamente per benedire i soldati. Diversa dalle altre chiese armene, con spazi chiusi e cupole alte, questa ha una piattaforma aperta di fronte all’altare, in modo che i soldati a cavallo potessero ricevere benedizioni senza scendere dalle loro cavalcature prima di andare in battaglia.
Si dice che durante le invasioni mongole, i guerrieri armeni cercavano una protezione speciale prima di combattere. La tradizione narra che i sacerdoti benedicevano sia i soldati sia i loro cavalli, conferendo loro una forza sovrannaturale e il favore divino per difendere la loro terra contro le forze invasori.
La leggenda vuole che molti dei guerrieri che ricevevano questa benedizione siano tornati illesi, alimentando la credenza nella potenza protettiva della Zorats Church.
Con la mia moto, mi sono sentito anche io un po’ cavaliere. Mi sono immaginato il prete con il braccio alzato e l’aspersorio in mano, mentre mi invitava alla pugna in nome di una nobile causa.
Oramai il sole è sceso sull’orizzonte. Mi fermo, sfinito, vicino a una gelida fontanella. Ho la gola riarsa. Nell’ansia di vedere questi fantastici luoghi, in trance, mi sono dimenticato di bere. Mi prendo un po’ di riposo: ho strapazzato il mio giovane amico, che mi maledirà o amerà per tutta la vita questo modo di viaggiare lontano dai luoghi comuni.
Ora non ci resta che raggiungere Jermuk, settanta chilometri oltre, dove riposare.