Le avventure e le disavventure di un povero viaggiatore al centro dell’India rurale
Nel capitolo precedente vi ho raccontato della mia immersione sulla strada, del primo giorno in sella alla mia moto tra rotatorie affrontate contromano, autostrade deliranti e mercati colorati.
Oggi, rallento. Voglio raccontarvi quello che si vede se si viaggia piano, senza fretta, attraversando i villaggi del Rajasthan, in quell’India rurale dove la gente si inventa una vita, ogni giorno.
Mi sono spesso chiesto: quali sono i beni di prima necessità in questi luoghi? I negozi — se così si possono chiamare — sono luoghi improbabili, a volte persino invisibili a uno sguardo distratto.
Una donna con un vecchio ombrello nero aperto sulla testa, per ripararsi dal sole, siede sul margine della strada. Il suo negozio è una vecchia coperta stesa sul polveroso selciato. Di fronte a lei, una piccola montagnina di haldi, quella che noi chiamiamo curcuma.

Sta seduta per terra, tra cartacce e vecchie casse di plastica, di quelle che si usano nei campi per raccogliere i frutti. Vende quella che qui è considerata una spezia sacra, usata nei matrimoni, dove si applica una pasta di curcuma miscelata con acqua, latte o olio di sesamo sulla pelle degli sposi, per purificarli.
Questo è il rito dell’haldi: la miscela viene spalmata su viso, collo, braccia e piedi da amici e parenti, in un rito collettivo per proteggerli e augurare ogni bene. L’arancio è poi il colore della fertilità.

Ma il sacro tubero non esaurisce qui il suo compito: entra nelle offerte, nelle puja, viene usato per tracciare il tilak (segno sulla fronte) e anche come medicina.
A vederla lì, sulla coperta polverosa di un villaggio, sembra solo un umile tubero… ma contiene secoli di cultura, medicina e simbolismo.

La prossima volta che sorseggerò un golden milk o sentirò il profumo del curry, saprò che in quella polvere arancio c’è anche tutto questo.
Qualcuno che ha letto le mie storie ricorderà che, all’inizio, vi ho raccontato perché sono tornato in India, e proprio in Rajasthan. Vi dissi che la prima volta non ero pronto, e che evitavo di far poggiare i miei occhi su ciò che mi sembrava solo miseria e povertà.
Stavo commettendo un madornale errore, qualcosa che mi impediva di vedere al di là del “bello”, dei templi e delle grandi dimore dei Maharaja.
Oggi, con uno sguardo più rilassato che accoglie e non rifiuta, mi fermo ad osservare qualsiasi cosa. Anche le scritte fatte a mano su dimore cadenti, che prima mi sembravano aumentare il degrado, oggi le vedo con occhi diversi.

Non è il significato che esprimono — a me ignoto — ma la grazia del Devanagari, con le sue lettere che sembrano appese a un filo: l’artigiano prima tira la linea di testa (śirorekhā), poi vi appoggia le lettere, che colorate rimangono stese come panni ad asciugare al sole.
E i carretti? Avete mai visto i carretti lungo le strade?
Molti venditori usano barrocci in legno che ricordano quelli dei nostri mercati di inizio ’900.
Altri, pur nella loro miseria, sono arrugginiti e contorti, con ruote sottili a raggi — forse di vecchie biciclette — con esili steli che sorreggono un tetto di lamiera: piccoli mondi mobili, testimonianze di resilienza, ingegno e povertà dignitosa.
Questi ultimi somigliano più a un’arte povera urbana: ogni pezzo probabilmente è stato saldato, inchiodato, rimesso insieme da chi non ha nulla. Il tetto di latta, assemblato con una lamiera sottile, è sostenuto da esili aste: tutto sfida la logica ingegneristica, in un precario equilibrio.
E sul tavolato? Frutta di stagione, chai, samosa, spezie, caramelle, sigarette sfuse.
O anche cibo cotto, venduto su una minuscola griglia o su una padelle rovente.

Ogni carretto è una microeconomia: spesso gestito da una sola persona, che ci dorme accanto, lo trascina a mano o lo spinge con fatica.
Anche quando sembrano pezzi di ferraglia in attesa dell’ultimo respiro, quei carretti sono mezzi di sostentamento, simboli di sopravvivenza.
Nella loro miseria arrugginita, parlano di un’umanità che non si arrende: sono la bottega, il rifugio, il mondo intero di chi li spinge.
Bene, per oggi basta così. Bisogna anche saper sopravvivere all’anima piena dell’India, giorno dopo giorno.
Al prossimo lunedì. E come sempre: Se tutto è andato bene, allora nulla è andato bene.
Stay Wild, Stay Shanti.
(15 – continua)