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venerdì, Gennaio 31, 2025

Conoscere Emergency e volerne fare parte

Per “Insoliti Viaggiatori – Viaggi per Umani” seconda e ultima parte del colloquio con Maurizio Pistore, un viaggiatore per amore della Vita

La scorsa settimana vi ho raccontato di Maurizio Pistore, un viaggiatore che ha trasformato la passione per la moto e la scoperta in una vera filosofia di vita. Vi ho parlato delle sue origini, della passione per i viaggi e del legame profondo con la strada. Oggi riprendo e concludo il racconto, addentrandomi nelle esperienze più significative di Maurizio: dai viaggi solidali alle collaborazioni con realtà umanitarie come Emergency. Scoprirete come le sue avventure siano diventate non solo un mezzo per esplorare il mondo, ma anche per lasciare un segno tangibile nelle vite degli altri.

Maurizio Pistore

Solidarietà e Senso del Fare

Ogni tuo viaggio è legato a una causa solidale. Quando hai deciso che il viaggio non sarebbe stato solo per te, ma anche per gli altri?

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“All’inizio viaggiavo per me stesso, per il puro piacere di scoprire luoghi e culture. Corsica, Sardegna, Grecia: erano viaggi che facevo per il piacere di andare, senza pensare a qualcosa di più grande. Ma tutto è cambiato con il viaggio Venezia-Pechino. Quella volta ero con Michele e Carlo, e nel gruppo c’era un medico che si occupava di raccogliere fondi e medicinali per l’ospedale pediatrico Surp Grigor Lusavorich a Yerevan, in Armenia. Arrivati lì, abbiamo incontrato il direttore dell’ospedale e stretto amicizia con una dottoressa che è diventata una cara amica di mia moglie. Quell’esperienza è stata travolgente. L’accoglienza che ci hanno riservato è stata straordinaria: tenori e soprani armeni hanno organizzato un concerto per noi, abbiamo incontrato il sindaco e ci hanno accompagnato a Tsitsernakaberd, il memoriale del genocidio armeno. Lì ci hanno fatto portare tre garofani rossi da deporre accanto alla fiamma eterna. Nel giardino del memoriale c’era persino una targa con i nostri nomi accanto a quelli di figure illustri come Giovanni Paolo II e Bill Clinton. Non avrei mai immaginato di vivere qualcosa di così intenso e simbolico”.

“Da quel momento continua -, ho capito quanto fosse importante che i miei viaggi avessero anche una dimensione solidale. Ho visto quanto bisogno di aiuto c’è nel mondo e quanto si può fare con gesti concreti. L’anno successivo, organizzando un viaggio in Sud America, ho deciso di mettermi in contatto con le associazioni dei veneti nel mondo per sostenere le comunità locali in Venezuela, Brasile, Uruguay e Argentina. A Montevideo, per esempio, abbiamo visitato il museo di Stato, dove ci hanno accolto in una sala con una riproduzione della Cappella degli Scrovegni in scala ridotta. Lì non abbiamo portato aiuti materiali, ma abbiamo messo le comunità in contatto con associazioni italiane che potessero supportarle.
Da allora, ogni mio viaggio ha una componente solidale. Con ‘Bambini nel Deserto’, per esempio, ho portato sementi in Niger, consegnandole personalmente ai contadini. In cambio, mi hanno introdotto a Gino Strada e al suo incredibile lavoro con Emergency. Queste esperienze mi hanno insegnato che viaggiare non è solo una questione di esplorare il mondo, ma anche di contribuire, nel mio piccolo, a renderlo un posto migliore”.

Il primo percorso attorno al mondo

Hai conosciuto Gino Strada e hai collaborato con Emergency. Cosa ti ha insegnato quell’esperienza sulla possibilità di fare del bene attraverso ciò che ami?

“Conoscere Gino Strada è stata un’esperienza che ha lasciato un segno profondo nella mia vita. È successo per caso, durante un viaggio in Africa, quando collaboravo con l’associazione ‘Bambini nel Deserto’. Stavamo realizzando progetti come la costruzione di pozzi e la distribuzione di sementi ai contadini locali. Un giorno, mentre attraversavo il Sudan, mi hanno parlato di un ospedale a pochi chilometri da Khartoum, gestito da Emergency. Non avevo molto tempo, ma hanno insistito perché andassi a vedere.
Quando sono arrivato, sono rimasto senza parole. L’ospedale era un esempio di eccellenza: aria filtrata, sale operatorie all’avanguardia, telemedicina. Era incredibile vedere un luogo di quel livello in una realtà così complessa. Ho avuto modo di conoscere Gino Strada proprio lì. Era appena uscito da una sala operatoria, sudato e stanco, dopo aver eseguito due interventi a cuore aperto. Mi ha colpito il suo impegno: passava nove mesi all’anno in quel posto, operando senza sosta”.

“Tornato in Italia continua -, ho deciso di diventare volontario per Emergency. Ho partecipato a eventi e incontri, occupandomi per diversi anni del settore scuola a Padova, dove parlavo ai ragazzi dell’importanza del lavoro di Emergency. Ma il momento che più mi ha segnato è stato durante il mio giro del mondo nel 2012-2013, che ho dedicato interamente alla raccolta fondi per questa causa. A San Francisco, per esempio, ho partecipato a una serata organizzata dal console italiano e da aziende come Barilla e Ferrari, dove hanno proiettato video del mio viaggio. Non sapevo che fosse usanza lasciare una busta con donazioni per Emergency, e sono rimasto sorpreso nel vedere quanto fosse generosa la gente. Tra i partecipanti c’era anche un attore famoso che ha lasciato una donazione di 25.000 dollari. È stata una testimonianza concreta di quanto si possa fare per gli altri, anche attraverso un viaggio. Questa esperienza mi ha insegnato che fare del bene non significa necessariamente cambiare il mondo da soli, ma contribuire con le proprie passioni e capacità. Viaggiare è sempre stato il mio modo di esplorare il mondo, ma con Emergency ho capito che potevo trasformarlo in qualcosa di più grande: un mezzo per aiutare chi ha bisogno e per sensibilizzare chi mi segue sulle necessità di tanti luoghi dimenticati”.

Qual è il progetto umanitario che ti ha toccato di più e che vorresti portare avanti ancora oggi?

“Il progetto che mi ha colpito di più e che porto nel cuore è il ‘Progetto Nicca’, realizzato grazie a un infermiere padovano. Questo progetto ha permesso a 150 bambini di una scuola elementare nel Pantanal, una regione remota vicino a Granada, di ricevere un’istruzione per cinque anni. Con la raccolta fondi fatta da me e alcuni amici, abbiamo acquistato libri, quaderni, penne, grembiuli e zaini per ciascun bambino. Abbiamo scelto di comprare tutto direttamente in loco, dove i costi erano molto più contenuti rispetto all’Italia, riuscendo così a massimizzare l’impatto del nostro contributo. La parte più toccante è stata quando siamo arrivati lì. La ragazza che aveva mantenuto i contatti con l’infermiere ci ha accompagnato a conoscere tutte le 150 famiglie. Per raggiungerle, abbiamo dovuto attraversare sentieri di fango a piedi, salire su un autocarro per un tratto, e poi proseguire di nuovo a piedi nel cuore della giungla. Le famiglie vivevano in baracche di legno e lamiera, in condizioni di estrema semplicità, ma c’era un’incredibile dignità. I panni, lavati e stesi ad asciugare sugli alberi della giungla, erano pulitissimi, simbolo di un’attenzione e un rispetto per la vita che mi hanno profondamente commosso.
Quella visita mi ha fatto capire quanto poco possa bastare per fare una differenza enorme nella vita di qualcuno. È un progetto che ancora oggi mi emoziona e che porterei avanti senza esitazioni, perché l’educazione è il fondamento per costruire un futuro migliore, anche nei luoghi più remoti e dimenticati del mondo”.

Sfide e Riflessioni

Hai vissuto momenti difficili in Amazzonia, tra la moto rotta e la mancanza di risorse. Cosa ti ha insegnato quella situazione sulla resilienza e sulla fiducia negli altri?

“Situazioni come quelle vissute in Amazzonia ti insegnano a cavartela da solo, a prendere decisioni rapide e a portarle avanti, anche se non è sempre facile. Una cosa che ho imparato è che, anche nei momenti più difficili, la determinazione e un pizzico di creatività possono fare la differenza. Ricordo una delle tante avventure durante il giro del mondo. A quei tempi, non avevo gli smartphone di oggi, ma un vecchio telefono a conchiglia, un Mitsubishi che usavo solo per mandare messaggi a mia moglie o, quando possibile, fare qualche chiamata tramite Internet. Durante il viaggio lungo la Ruta 40, tra Argentina e Cile, ho attraversato la frontiera diverse volte, ma alla settima, al Passo Agua Negra, ho avuto un problema inaspettato. Il doganiere guardava il mio tre ruote e, vedendo le gomme di scorta sul retro, mi ha accusato di contrabbando di pneumatici. Mi ha chiesto di firmare una dichiarazione e lasciargli 100 dollari. Ho cercato di spiegare che non stavo facendo contrabbando, ma non c’è stato verso: era inflessibile. Dopo venti minuti di discussioni inutili, ho deciso di cambiare approccio. Ho preso il mio vecchio telefono, l’ho aperto e, fingendo di fare una chiamata, ho detto ad alta voce: ‘Sto contattando il console italiano. Gli sto raccontando che un certo signor Gomez mi sta fermando qui per contrabbando di pneumatici’. Il doganiere, visibilmente preoccupato, mi ha chiesto se stessi davvero chiamando il console. La verità è che il console italiano era a Punta Arenas, a 2.000 chilometri di distanza! Ma la mia messinscena ha funzionato: ha subito ritirato la carta da firmare e mi ha lasciato passare. Questi episodi ti insegnano che la resilienza non è solo una questione di forza interiore, ma anche di sapere adattarti alle circostanze e trovare soluzioni creative. E, in qualche modo, ti fanno anche apprezzare l’imprevedibilità del viaggio, perché sono proprio queste storie che rendono l’esperienza indimenticabile”.

C’è stato un momento in cui hai pensato di non farcela? Come hai trovato la forza di andare avanti?

“Un momento che non dimenticherò mai è stato durante il mio viaggio tra Colombia e Panama, una zona resa famosa dal Darien Gap, una foresta impenetrabile che separa i due paesi. Non esiste una strada che le colleghi, quindi ho dovuto affidarmi a una lancia, una piccola barca, per raggiungere Puerto Baldía, una piccola comunità indigena. Lì avrei dovuto aspettare un’altra imbarcazione, più grande, che trasporta beni di prima necessità verso le isole San Blas. Quello che doveva essere un breve stop si è trasformato in un’attesa interminabile. Giorni interi passavano senza notizie della barca, e presto ho finito i soldi. Non avevo più nulla per pagare l’ospitalità o comprarmi da mangiare. Seven, un uomo del villaggio, mi ha rassicurato: ‘Non ti preoccupare, resterai con noi. Ormai fai parte della famiglia’. Ho condiviso con loro quel poco che avevano: pesci pescati con mezzi di fortuna e altre risorse minime, perché anche loro aspettavano l’arrivo della barca con le provviste. Dopo sei giorni, mi sono sentito sopraffatto. L’idea che la mia moto potesse rimanere bloccata lì, che il viaggio potesse finire, mi ha fatto scoppiare in lacrime. È stato un momento di grande sconforto. L’unica cosa che mi ha tenuto in piedi è stata la possibilità di comunicare con mia moglie. Anche con mezzi limitati, lei era sempre lì a darmi forza, ricordandomi che avrei trovato un modo per superare quella situazione. Dopo 13 giorni, finalmente, la barca è arrivata. Il motivo del ritardo? Il comandante colombiano responsabile era completamente ubriaco e irreperibile. Quando finalmente ho visto la barca, ho urlato dalla gioia. Ho caricato la moto e sono ripartito. È stata un’esperienza estrema, ma mi ha insegnato a resistere e a non perdere mai la speranza, anche quando sembra che tutto sia contro di te. Alla fine, ogni viaggio è fatto di momenti difficili e di grandi insegnamenti, ed è proprio questo che lo rende speciale”.

Ti capita mai di sentirti solo in viaggio? Come gestisci quella sensazione?

“La solitudine in viaggio è una compagna inevitabile, soprattutto quando ti trovi in luoghi come l’Australia, dove ho percorso il rettilineo più lungo del mondo, una strada deserta che sembra non finire mai. In quei momenti, il silenzio e la vastità ti spingono a trovare modi creativi per riempire lo spazio attorno a te: batto le mani, canto ad alta voce, fischio. È un modo per rompere quella sensazione di isolamento fisico. Ma la vera sfida è gestire la solitudine mentale. Quando sei solo, hai tantissimo tempo per pensare: riflettere sulle tue relazioni, sugli errori che hai commesso, sulle decisioni da prendere. Ti ritrovi a rivedere le stesse situazioni da dieci prospettive diverse, cercando soluzioni o interpretazioni nuove. Mi ricorda i sogni ricorrenti che facevo da bambino: uno su tutti, quello della settima cavalleria, che nei miei sogni finiva ogni volta in modi diversi. Viaggiare da soli è un po’ così, un continuo riscrivere e reinterpretare la realtà. Eppure, la solitudine vera, quella che ti fa dire ‘Cosa ci faccio qui?’, è una sensazione che ho provato raramente. Alla fine di ogni giornata c’è sempre qualcuno che incontri, anche inaspettatamente: un compagno di strada, un volto nuovo che diventa un amico per qualche ora o per una vita. Anche se poi molti di quei legami si perdono, in quel momento riempiono il vuoto. Se devo essere sincero, quest’anno è stata una delle poche volte in cui ho avvertito un senso di nostalgia che si avvicinava alla solitudine. È successo quando ho deciso di tornare a casa prima del previsto. Ma anche quella sensazione, più che un vuoto, era una spinta a ritrovare qualcosa di familiare, un bisogno di ricollegarmi con ciò che mi è più caro. In fondo, la solitudine in viaggio è anche una grande maestra: ti insegna ad apprezzare ancora di più le connessioni umane, che siano fugaci o durature”.

Un’Occhiata al Futuro

Hai accennato a un progetto con Ettore (MTS) per scegliere una causa solidale ogni anno. Come vorresti che questa iniziativa crescesse nel tempo?

“Ho condiviso con Ettore l’idea di occuparmi personalmente di un progetto solidale all’interno del nostro gruppo, un’iniziativa che sento profondamente. Noi, che abbiamo la fortuna di poter viaggiare e vivere esperienze straordinarie, abbiamo anche l’opportunità, se non il dovere, di restituire qualcosa. Il progetto è ancora in una fase embrionale, ma l’obiettivo è chiaro: scegliere ogni anno, o anche più volte l’anno, una causa che meriti il nostro supporto. Vorremmo spaziare tra diversi ambiti: organizzazioni umanitarie, progetti sanitari, iniziative locali o internazionali. La scelta è praticamente infinita. Immagino una struttura flessibile, capace di adattarsi alle necessità che emergono e di raccogliere fondi in vari modi: attraverso sponsorizzazioni, eventi dedicati o donazioni personali. Lo scorso Motorbike Expo di Verona è stato il luogo ideale per presentare ufficialmente l’iniziativa, coinvolgendo motociclisti e sponsor desiderosi di trasformare la passione per il viaggio in un veicolo di solidarietà. L’idea di base è semplice ma potente: chi ha avuto tanto ha anche l’opportunità, e forse il dovere morale, di restituire qualcosa. Perché aiutare chi è meno fortunato arricchisce non solo chi riceve, ma anche chi dà”.

C’è un viaggio o una destinazione che sogni da sempre, ma che non hai ancora avuto il coraggio di affrontare?

“Un sogno che ho sempre avuto è il Sud-est asiatico, una regione che mi ha attirato fin da giovane. Avevo già tentato di esplorarla una volta, ma problemi con la moto mi hanno costretto a rimandare. Finalmente, però, il 2 febbraio partirò per il Vietnam, un viaggio che non vedo l’ora di intraprendere. Grazie a Stefania, che ha tracciato l’itinerario, visiteremo non solo i luoghi più iconici come il delta del Mekong, ma anche le popolazioni tribali al confine con la Cina. Sarà un’esperienza completamente in moto, con un mezzo noleggiato in loco. Devo essere sincero: questa avventura non sarebbe partita da me, ma dalla spinta e dall’organizzazione di Stefania, e gliene sono immensamente grato. C’è però una destinazione che per ora rimane un sogno irrealizzato: la Nuova Zelanda. È un luogo che molti amici hanno visitato, tra cui Pellegrinelli, che ha intrapreso un viaggio incredibile partendo dagli antipodi dell’Italia per poi arrivare nel nostro Paese. Anche se non ho ancora programmato un viaggio lì, non mi pongo limiti. La Nuova Zelanda rappresenta per me un’idea di bellezza lontana e pura, un’avventura che un giorno spero di vivere”.

Chi è Maurizio Pistore?

Al di là dei viaggi, chi è Maurizio Pistore nella quotidianità? Che ruolo hanno avuto la tua carriera di insegnante e allenatore nella tua vita?

“Maurizio Pistore, oggi, è un ‘vecchietto in pensione’, come ama definirsi con un sorriso. Ma, dietro questa autoironia, si cela un uomo che si considera molto fortunato. Dopo aver sbagliato indirizzo scolastico alle superiori, scegliendo informatica, ho trovato la mia vera strada nelle attività sportive. Ho frequentato l’Isef e intrapreso una carriera come insegnante di educazione fisica e allenatore di pallavolo femminile. Allenare è stato molto più di un lavoro: per 42 anni mi ha regalato immense soddisfazioni, grazie agli atleti e ai colleghi straordinari che ho incontrato lungo il cammino. Tre sono i grandi pilastri della mia vita: mia moglie, che considero il mio più grande dono; l’attività sportiva, che mi ha permesso di fare ciò che amavo ogni giorno; e il viaggio, una passione nata guardando i documentari di Folco Quilici da giovane. Quei film mi hanno fatto sognare mondi lontani e popoli affascinanti, e credo abbiano gettato le basi per il viaggiatore che sono oggi.
Nonostante tutto, sono consapevole che non si può fare tutto nella vita, ma posso dire con sincerità di aver realizzato tanto e di essermi sentito incredibilmente fortunato lungo la strada”.

Voglio che tu prossimamente mi racconti una storia ora dammi solo un accenno…

“Ti racconterò di un viaggio che porto nel cuore: la Polinesia Francese, una delle zone più belle e mitiche del mondo. È stato un viaggio unico, realizzato con mezzi particolari e reso indimenticabile dall’incontro con persone straordinarie, di quelle che non capita spesso di incrociare nella vita. Ma per i dettagli, ti lascio con un po’ di suspense: sarà una storia da raccontare per bene la prossima volta”.

Riflessioni e Consigli

Che cosa significa, per te, libertà? È una parola che spesso si associa al viaggio, ma cos’è davvero?

“La libertà, per me, è semplicemente poter scegliere. Non è solo legata al viaggio, ma abbraccia ogni aspetto della vita: scegliere dove andare, cosa fare, con chi vivere e chi incontrare. La vera libertà risiede nella possibilità di decidere autonomamente il proprio percorso, senza vincoli o imposizioni. È questa facoltà di scelta che considero l’essenza più profonda della libertà”.

Se potessi dare un consiglio al Maurizio che stava per partire per il suo primo viaggio importante, quale sarebbe?

“Non mi sento di dare un consiglio universale, perché ogni persona è diversa e affronta i viaggi a modo suo. Ma al ‘me stesso’ di allora direi: segui il tuo istinto. Informati, se ti serve, ma non arrenderti mai. Le difficoltà, anche quelle che sembrano insormontabili, hanno sempre una soluzione, spesso più semplice di quanto immaginiamo. Certo, alcune saranno davvero dure, ma provarci è fondamentale. Il viaggio ti offre una gratificazione unica, un senso di realizzazione che non ha pari. È una delle esperienze più belle che si possano fare… almeno per me. Per altri, potrebbe essere possedere un’auto fantastica o altro, ma per me, quella gratificazione viene dal viaggio”.

Grazie, Maurizio, per averci regalato non solo il racconto dei tuoi viaggi, ma anche una lezione di vita fatta di passione, impegno e solidarietà. Le avventure con straordinari viaggiatori come lui non finiscono qui: nelle prossime settimane continueremo a scoprire storie di chi ha saputo trasformare la strada in un percorso di crescita e scoperta. Restate con noi per altri incontri indimenticabili!

(2 – fine)

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