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martedì, Maggio 20, 2025

A chi dare il flauto? Politica tra giustizia, utopia e disincanto

Cuperlo riflette su come la sinistra possa ritrovare senso e forza, recuperando il coraggio della cultura critica e l’autonomia del pensiero politico

Come sempre dalla sua pagina facebook, prendiamo e pubblichiamo...

Come vi ho scritto, sabato mattina al Salone del libro di Torino ho ragionato con Andrea Malaguti, direttore de La Stampa, e Gabriele Segre su di un tema intrigante, il titolo dell’incontro era “Esiste ancora la politica?”. Più o meno ho provato a dire queste cose (ho sistemato qualche appunto che avevo preso).

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Sono partito dal ricordo di una lezione di Michael Sandel (ma il tema a suo tempo era stato ripreso anche da Amartya Sen). Allora, il racconto è questo.

Ci sono tre bambini, Anna, Carla, Bob e un flauto. Il problema è tutto lì, che i bambini sono tre, ma il flauto soltanto uno e bisogna decidere a chi darlo. Ciascuno dei tre ha le sue buone ragioni per chiedere di averlo.

Anna spiega che lei è la sola a saperlo suonare e dunque solo lei potrebbe usarlo per ciò che serve, offrire agli altri due una bella melodia. Per parte sua, Bob spiega che in casa sono molto poveri, non ha neppure un gioco e quel flauto sarebbe un dono del cielo, il primo e l’unico. Carla, infine, dice che il flauto va dato a lei per il semplice fatto che è suo, e la prova è che per un mese intero è stata lei a costruirlo materialmente.

Se siete voi a dover decidere a chi dare il flauto, voi siete la “politica”: quella disciplina complessa che mescolando storia, filosofia, economia, diritto… ha impiegato qualche secolo per decidere a chi bisognasse dare il flauto col risultato che in tempi e in paesi diversi non l’ha dato sempre alla stessa persona.

Nel corso del tempo… Utilitarismo, Egualitarismo, Liberalismo hanno elaborato tre risposte diverse (Bob ha ricevuto il flauto da tutte le culture che volevano ridurre le diseguaglianze / Carla ha avuto la simpatia di ogni sincero liberista / Anna si è avvalsa del vecchio adagio “nessuno spreco, nessun bisogno”).

Il punto è che per arrivare a questo dibattito (l’uso più corretto delle risorse, la loro distribuzione, le libertà e i diritti delle persone), prima c’è stato un cammino lungo (cammino che deve farci riflettere in un passaggio come quello odierno, così drammatico per le sorti della democrazia).

Proviamo a mettere in fila: la libertà del pensiero nelle opere di Bruno, Campanella, Galileo… l’analisi storica sul ruolo della religione che elabora Machiavelli; la libertà di opinione e il diritto all’educazione di Filangieri; o le critiche sociali di Genovesi, titolare della prima cattedra in Europa di Economia politica; fino al rifiuto della tortura e della pena di morte che Beccaria risolve nella seconda metà del ‘700.

Quello che voglio dire è che c’è stata una “sapienza civile”, fondata sul primato del sapere critico e scientifico in tutte le sue espressioni. E questa sapienza civile ha condizionato l’intera civiltà politica dell’Europa.

Ma se è così (e più o meno le cose sono andate così) come è potuto accadere che questa nostra vocazione civile si sia impoverita e sia potuta prevalere, nel nostro tempo, una regressione di quei valori di solidarismo, di laicità, di una moralità pubblica, che pure avevano delle radici tanto profonde?

Credo venga almeno da due novità con le quali ci siamo misurati nell’arco degli ultimi trenta, quarant’anni. La prima è un episodio minore, ma colpisce, se non altro per il luogo e la data. Accade nell’ottobre del 2008, quindi a crisi finanziaria già esplosa, e a Washington si tiene l’audizione di Alan Greenspan, l’uomo che ha guidato la Fed (la Federal Reserve) per 18 anni. Il presidente della Commissione gli si rivolge con queste parole. “Lei ritiene che la sua ideologia possa averla indotta a decisioni che oggi rimpiange?” La risposta di Greenspan è secca: “Guardi, per esistere, si ha bisogno di un’ideologia. Il punto è se sia valida oppure no. Nella mia ho trovato un errore del modello che vedevo come la struttura fondamentale per il funzionamento del mondo”.

“In altre parole – replica l’altro – lei ha scoperto che la sua visione del mondo, non era giusta, non funzionava?”

“Esatto, e questo è il motivo per cui sono rimasto scosso. Perché sono andato avanti per quarant’anni con conferme evidenti del suo funzionamento perfetto”.

È un dialogo illuminante per chi non voglia fermarsi al racconto sui mutui delle case americane e abbia interesse a vedere la frattura culturale e politica che si è prodotta. E che nasceva dalla convinzione che la politica dovesse cambiare la sua funzione e mettersi al servizio di un’altra scala del potere.

In fondo, l’idea (che ha avuto una sua forza e tuttora ce l’ha) di un mondo globale segnato da regole e destini inevitabili ha avuto questa potenza: ha sottratto a milioni di individui la certezza di poter influire sulla propria vita, di poterla condizionare verso il meglio (che poi è stata la spinta, la molla, che nel bene e nel male ha animato le grandi culture politiche del ‘900).

Ma se il messaggio – per anni, per decenni – diventa “il mondo va in quella direzione e nulla e nessuno potrà più impedirlo”, non ci si deve stupire se subentra un senso di fatalismo (quando le cose vanno discretamente bene), perché poi, appena le stesse cominciano ad andare male come adesso, quel fatalismo è destinato a diventare rabbia, disperazione e anche rivolta.

Insomma, se togli la speranza a tre o quattro generazioni il risultato non sarà una società con minori conflitti e odi, ma una democrazia più fragile e vulnerabile. Per questo penso sia giusto ripartire da qui: da uno scontro culturale sulla funzione della politica che in questi anni abbiamo combattuto con troppa timidezza. Perché in qualche modo anche noi – per una fase – abbiamo ceduto all’idea di una modernità fondata su una forbice delle diseguaglianze destinata comunque ad allargarsi. Però questo accade quando la politica rinuncia a parte della sua autonomia e anche a quella utopia moderata che le consente di ribellarsi a un ordine obbligato delle cose. Soprattutto perché davvero obbligato quell’ordine non lo è mai.

Il punto è che la destra – e non è un paradosso – può fare a meno della politica. Perché la delega ad altri poteri è comunque in grado di tutelare i suoi interessi. Per noi No. Per la sinistra non è così. Senza la politica viene meno la ragione stessa della nostra esistenza.

Anche per questo nel cambio d’epoca che stiamo vivendo impressiona la distanza tra la dimensione della “potenza” (finanza scienza tecnologia) e la sfera del “potere” (espressione della politica).

Quella sintesi impietosa di qualche anno fa (i mercati governano, i tecnici amministrano, i politici vanno in televisione) si può tradurre anche così: i miliardari comandano, gli autocrati obbediscono, i politici continuano ad andare in televisione.

Resta un fatto in sé: questa destra non è più la “mucca nel corridoio”, ma un “cavallo di Troia” che aggredisce le democrazie dall’interno (spesso, dal governo) nel segno di un nuovo ordine interno e internazionale.

Mi fermo qui, ma solo per dire che senza nuove categorie di lettura del tempo storico che stiamo vivendo sarà complicato per la sinistra recuperare quella credibilità e consenso senza le quali una opposizione competitiva e vincente non ci sarà.

D’altra parte, vale ancora quella vecchia sintesi: “Cambiare il mondo non è follia, né utopia, è semplicemente giustizia”. Questo non è Marx, neanche Gramsci o Berlinguer, questo è Don Chisciotte (e allora forse è anche di un grammo di follia e utopia che abbiamo bisogno se il traguardo rimane quello di una società giusta).

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