Gianni Cuperlo. Post del 21 marzo
Oggi pomeriggio nella mia farmacia per un tampone di controllo, mi spiegano che Omicron 2 effettivamente ha alzato notevolmente la percentuale dei positivi (seppure senza sintomi allarmanti). Ma in concreto vuol dire che sono passati in pochi giorni da una cifra attorno al 10 per cento a un numero ben più significativo. E allora esco col mio referto e penso che davvero siamo tutti un po’ schiavi di una informazione che procede a cicli monotematici, dapprima per settimane solo pandemia di prima mattina e fino a notte fonda, ora (come per altro è sacrosanto) la guerra nel cuore dell’Europa e le sofferenze di un popolo che cerca di difendersi.
Però quel pensiero segue una sua traccia e allora vado a rileggermi l’articolo di Domenico Quirico uscito stamane su la Stampa. Lui lo descrive così: “da tempo possiamo sopportare solo un guaio per volta, il terrorismo, la migrazione, il califfato, l’epidemia, adesso Putin e le sue voglie. Da venti giorni si può dire che non ci guardiamo più intorno, abbiamo abolito il resto del mondo”.
Naturalmente lui non lo scrive per ridurre la portata della tragedia in corso a Kiev e nel resto dell’Ucraina. Lo scrive per il motivo esattamente opposto: perché nel silenzio di tanti, di troppi, un po’ di tutti noi, ci rammenta che altre tragedie si stanno consumando nel silenzio di un mondo (il nostro) incapace di coltivare un’immagine completa e compiuta dei conflitti e delle contraddizioni in essere.
Accade così che nell’indifferenza generale Bashar Assad ricompaia sulla scena e venga immortalato negli Emirati “impettito, in grisaglia presidenziale, accanto a al principe ereditario di questo regno da operetta ma benedetto dal petrolio”. Con buona pace e spedizione in archivio dei bombardamenti sulle città, del mezzo milione di morti, dell’uso dei gas e delle ferme condanne dell’Occidente (di ieri).
O che i talebani, conquistato in estate il pieno controllo di Kabul, riprendano i contatti ufficiali con le Nazioni Unite nonostante il burqa obbligatorio e le esecuzioni capitali non siano un ricordo del passato. E se le ragazze e le bambine di nuovo non possono studiare verrà il tempo più in là per tornare a occuparcene, oggi si pensa ad altro.
Ma le tragedie per chi le vive non rispettano una gerarchia. Sono tragedie e basta. Forse ricordarcene mentre stiamo al sicuro protetti nel nostro guscio di occidentali fortunati è un piccolo passo per non usare più la formula di un mondo globale terribilmente a sproposito.
Un abbraccio