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lunedì, Aprile 21, 2025

Fornaci, identità cancellate e il coraggio di restituire la terra alla terra

Siena e le sue aree dismesse, seconda puntata su pregi e difetti dell’urbanizzazione

La scorsa settimana abbiamo parlato del recupero dell’area della Vecchia Stazione a ridosso delle mura di Siena, che, lentamente, con il crescere della città, è stata completamente inglobata nel nucleo insediativo creatosi subito fuori le mura. Per l’area non possiamo parlare di un piano organico di recupero, ma semplicemente di un riuso di edifici o aree dismesse avvenuto nel corso di oltre sessant’anni, tra il 1937 e il 1968.

Spesso mi chiedo se dovremo aspettare altrettanto per vedere recuperate, trasformate o rinaturalizzate le grandi aree dentro e ai margini del comune di Siena. E vi assicuro che ce ne sono molte.

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Oggi voglio parlarvi proprio di alcune di queste: in particolare della ex fornace ad Arbia e della ex fornace a Castelnuovo Berardenga Scalo, entrambe nel territorio del Comune di Asciano.

Ho visitato questi luoghi guardandoli con un occhio particolare, perché sono nato a Cerchiaia, accanto a quella che si chiamava la “Fornace del Semplici”, oggi scomparsa, trasformata in un quartiere residenziale. In quel processo si è persa completamente la memoria del luogo: nessuna traccia dello storico Forno Hoffmann, della ciminiera, del fontone che affiancava la piccola cava di argilla dove, da bambino, andavo a pescare ranocchie.

Fornace dell’Arbia

Nessuna memoria nemmeno dei piccoli capannini dove l’argilla, una volta lavorata a mano negli stampi, veniva posta ad essiccare. Ancora oggi, se vi capita di smontare le mezzane di un vecchio solaio, vedrete che questi sottili mattoni hanno una faccia “buona” e una dove ancora si distinguono le impronte delle dita dell’operaio che pressava lo stampo.

L’area della Fornace del Semplici è stata recuperata riempiendola di nuovi edifici, lasciando solo il piccolissimo grumo di case dove all’epoca erano gli uffici. Guardando il luogo con gli occhi di oggi, mi è parsa quasi una volontà di cancellare la memoria del sito, insieme al piccolo abitato che lo fiancheggiava. Oggi, se date un’occhiata alle mappe di Google, vedrete che non solo è sparita la fornace, ma anche il vecchio toponimo di Cerchiaia, oggi menzionato solo nella zona commerciale giù nella valle.

Fornace di Castelnuovo Scalo

Nell’abitato di Cerchiaia, tuttora esistente, vivevano molti degli operai che lavoravano nella fornace. Ricordo ancora il loro rientro a sera, con braccia e gambe lorde di argilla, mentre si pulivano al lavatoio e un rivolo di acqua grigia scorreva sul selciato. La scritta “Cerchiaia” fu cancellata dal casone all’incrocio semaforico una decina di anni fa, e con essa un piccolo pezzo della mia infanzia.

Giro intorno a ricordi relativamente recenti, come possono essere i miei, o più antichi, per tentare di sensibilizzare chi pianifica o decide del nostro futuro. Spesso, forse inconsapevolmente, non si rende conto di cosa sta maneggiando. O forse, semplicemente, lo fa in maniera “ignorante”.

Fornace di Castelnuovo Scalo

La storia dei luoghi non si può cancellare con una gettata di cemento, lasciando soltanto qualche toponimo. Bisogna dare sostanza alla memoria. Per questo, per dare significato a ciò che vi sto raccontando, vorrei ricordarvi anche un pezzo più lugubre della storia di questi luoghi.

Nel Medioevo, a Siena, le esecuzioni capitali erano eventi pubblici, preceduti da un rituale codificato. I condannati a morte venivano condotti in un itinere supplicii fuori dalle mura cittadine, dal luogo di prigionia fino al patibolo. Questo percorso, carico di significati simbolici e religiosi, attraversava luoghi tuttora ricordati nei toponimi senesi: dalla Via di Porta Giustizia fino alle campagne di Cerchiaia e Coroncina, per terminare sul colle isolato dove sorgevano le forche. Tali luoghi non erano scelti a caso: segnavano il confine tra la città e l’esterno, tra la comunità dei vivi e “l’altrove” riservato ai rei, in un percorso di espiazione pubblica e di preparazione alla morte. Lungo una strada di grande comunicazione e visibilità: la Cassia.

Potrei continuare raccontandovi dell’Albergaccio, dove i condannati facevano un’ultima sosta, e di Coroncina, dove all’alba recitavano l’ultimo rosario (da qui il nome dell’abitato), prima di essere condotti alle forche sul poggio di Pecorile.

Fornace dell’Arbia

Ma torniamo all’argomento di oggi. Sono entrato nelle fornaci dell’Arbia, non fisicamente, ma volandoci sopra con il drone, un po’ di tempo fa.

La fornace oggi è racchiusa in un contesto urbano. La pianificazione recente ha decretato che intorno alla grande fabbrica nascessero case. Ora il grande spazio è circondato, direi assediato, da un’urbanizzazione che sembra voler cancellare ogni segno di questi luoghi.

Se posso esprimere sommessamente la mia opinione, non sono d’accordo. È giusto preservare, sanare, ma demolire per costruire a nuovo trentamila metri quadri di edificazione — previsione presente nel piano — è una follia. Si usa la scusa di dover artificiosamente dare valore ai terreni, perché i proprietari che li hanno sfruttati sino a ieri, oggi abbiano le risorse per bonificare e “valorizzare” il sito, rimuovendo l’amianto e ogni altra schifezza che loro stessi vi hanno posto.

Vorrei riflettere sui numeri. Di quei trentamila metri quadri di edificazione, ventimila sono destinati alla residenza. Questo significa realizzare circa 250 alloggi, se ipotizziamo una superficie media di 80 mq. Vorrebbe dire portare nell’area da 600 a 800 nuovi abitanti, a seconda dei parametri utilizzati. Ma per cosa? Qual è la necessità di creare questa nuova piccola città, a ridosso di Siena, con una furbesca manovra che ne sfrutta i servizi?

Per rendere più chiaro il mio discorso, guardiamo alla storia recente del luogo.

Fornace di Castelnuovo Scalo

La storia della Laterizi Arbia affonda le radici nei primi anni del XX secolo, con la fondazione della “Cotto Arbia” ad Arbia. La data precisa di fondazione dovrebbe risalire al 1920. La posizione strategica di Arbia, lungo la strada che collegava Siena ad Arezzo (la Via Aretina) e in prossimità della linea ferroviaria Siena-Chiusi, con la stazione di Arbia Scalo inaugurata nel 1898, si rivelò un fattore cruciale per la localizzazione della fabbrica, agevolando il trasporto sia delle materie prime che dei prodotti finiti.

Nel 2002, la produzione fu trasferita dal sito di Arbia in un nuovo e più grande stabilimento situato a Castelnuovo Scalo. La sede legale della società rimase ad Arbia.

Il fallimento della Laterizi Arbia nel 2020 ha sancito la chiusura definitiva dello stabilimento. Attualmente il sito è abbandonato e in stato di degrado, come testimoniano le molteplici aste fallite. I prezzi base in discesa (da 4.795.000 a 3.836.000 euro, e poi a 3.582.000 euro) riflettono la mancanza di interesse, nonostante le “sontuose previsioni” edificatorie concesse.

Vorrei dire che ripensare a luoghi usati per decenni e sfruttati industrialmente non può tradursi automaticamente in abitazioni e servizi, soprattutto quando, dai numeri, non emerge una reale necessità. Operazioni del genere sono spesso urbanisticamente discutibili.

Fornace dell’Arbia

Credo sia semplicistico l’approccio finora dominante: area dismessa = area edificabile. Le nostre zone non sono in crescita demografica da anni, quindi costruire: per chi? Per cosa? Che senso ha?

Vi riporto qui un appunto che presi mentre volavo sulla “gemella fornace” a Castelnuovo Scalo.

La fornace si allunga in una vallecola lungo la ferrovia, dove una stazioncina fa da caposaldo a una piccola strada. Il mondo sembra terminare lì. Intorno, la dura argilla delle colline con gli steli troncati delle stoppie puntute del grano, i guardiafossi che disegnano il paesaggio contornando le anse profonde dei poggi.

Fornace di Castelnuovo Scalo

Mentre volo, seguo una sterrata rossa di detriti: parte dalla fornace, costeggia la cava rigata dall’acqua, come se la terra potesse improvvisamente sciogliersi in mille rivoli che si torcono sulla ripa per poi morire nella terra soda dei campi. Campi immobili, apparentemente abbandonati, in attesa che il coltro li giri, che l’uomo ridisegni il paesaggio rovesciando l’argilla per lasciarla lì, ad aspettare che il gelo ne disfi le zolle.

Nulla qui è possibile senza un’immane fatica, senza le braccia dell’uomo. La fabbrica ferma testimonia forse il fallimento, l’impossibilità di continuare un lavoro che per quasi due secoli ha cavato pane da quella che ora appare solo come una grigia massa sterile, dove nemmeno un filo d’erba colonizza la materia.

Fornace dell’Arbia

Solo gli uccelli trovano dimora sui tetti, nel piccolo lago verde che fungeva da riserva d’acqua per la fornace. Con la loro presenza, il loro volare, sembrano provare a restituire dignità a questi luoghi.

Mentre mi allontano, passo per la stazione. Dal lato opposto della strada, solo due case piantate nel nulla. Quale viandante oggi potrebbe fermarsi in questo sito calcinato dal sole? Ho la sensazione che qui, come in un Lego, tutto si smonti con i tempi dettati, scanditi dal trascorrere delle vite, dall’abbandono dei mestieri.

Forse servirebbe solo un po’ di coraggio per ridare la terra alla terra.

(2 – continua)

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