La conclusione del viaggio: corsa verso Darwin superato il tropico del Capricorno
Con un giorno di ritardo, colpa della redazione non dell’autore, ecco la conclusione della traversata di Australia di Luca Gentili. Le prime due puntate le trovate a questi link – l’inizio della traversata e stranezze del deserto -, mentre un racconto più ampio sarà reso a breve sul Gentiliblog. Abbiamo lasciato Luca che era da poco entrato nei territori del Nord alle prese con la conoscenza delle termiti magnetiche, ora, con il superamento del tropico del Capricorno, la natura intorno a lui tornerà a cambiare (dr).
Daly Waters e la Roadhouse
Non so se annoverare questo agglomerato di tre case tra le quindici Roadhouse incontrate lungo l’Outback, vecchie stazioni di posta ora uniche oasi di ristoro mentre si percorre il deserto. Un piazzale sterrato, una vecchia tettoia di lamiera, le pompe per la benzina, una via di mezzo tra un diner che sembra direttamente uscito dagli anni quaranta e un saloon.
Le pareti sono sempre piene di graffiti, di chi in questi luoghi ha voluto lasciare traccia del suo cammino. In alcuni dal soffitto penzolano le cose più strane: cappelli di tutte le fogge, vecchie scarpe consunte… uno era letteralmente coperto di reggiseni e mutande; in un altro le pareti erano tappezzate di documenti di identità e patenti originali provenienti dai più svariati luoghi del mondo.
L’atmosfera che respiri appare immutata nel tempo, sono un viaggio nel viaggio. Ti devi fermare sempre e comunque a rabboccare la benzina, non sai quando e dove ne troverai altra. Chi lavora qui è conscio che spesso il centro abitato più vicino è a cinque o seicento chilometri di distanza e loro stessi sembrano usciti da una filmografia inquietante alla “Shining” o ad “Anche le colline hanno gli occhi”.
Poi, all’interno, magari trovi una vecchia signora che pulisce con uno straccio bisunto il vecchio bancone di legno, con gli sgabelli di fronte ben allineati e dietro la lavagna, piena di scritte con gessetti colorati, dove si elencano il piatto del giorno e le specialità della casa. Tutto è in penombra, come se la luce colpendo gli oggetti potesse polverizzarli.
Mentre armeggiavo con l’erogatore per il rifornimento, mi sento urlare: “Dopo aver fatto il pieno, fotografa con il cellulare il display così vedo quanto devi pagare”. Sì, ma quale display? Mi viene da sorridere. La macchina aveva ancora i numeri indicati su una piccola ruota che lentamente girava, come se la pompa non avesse più fiato.
Ecco, Daly Waters è tutto questo insieme e molto di più. Vecchi aerei in disuso sparsi lungo il polveroso viale di accesso, un paio di elicotteri esibiti come cimeli, caduti mentre radunavano il bestiame. Un coccodrillo di nome Kirby che fa la guardia al giardino, cavalli e pecore che si aggirano tra i due o tre mostruosi pickup ottomila di cilindrata che sono arrivati fin quaggiù.
Poi, dentro un enorme hangar, quello che non ti aspetti: messi alla rinfusa, ci sono Harley, Indian, BSA e qualsiasi moto vi possa venire in mente costruita prima degli anni sessanta. A riempire ogni spazio lasciato libero macchine d’epoca e cimeli di ogni tipo, tutti ricoperti da quella polverina sottile che solo il tempo sa donare alle cose.
Chiunque abbia messo in piedi questa collezione deve aver impiegato decenni. La sera al bancone per mandare giù la carne di un monumentale hamburger chiedo uno shot di whisky e mi sento rispondere che non servono alcol puro. Devo scegliere se allungarlo con soda o CocaCola. La donna dietro al banco, quasi mortificata, aggiunge: “Troppo lontano qualsiasi soccorso se qualcuno si dovesse ubriacare o avere un malore”.
La storia di Daly Waters risale all’Ottocento, ai tempi dei primi esploratori di questi luoghi: un semplice magazzino per stivare materiale e poter proseguire il viaggio. Ma questa è un’altra storia e la potete leggere in qualsiasi guida.
Jabiru Airport – Kakadu National Park
Sono arrivato a Jabiru, un’ordinata cittadina di qualche centinaio di abitanti, sorta accanto a una miniera di uranio oggi in via di bonifica, scavata nel mezzo di un meraviglioso parco grande quanto la Toscana. Verrebbe da chiedere a chi pochi anni fa ha compiuto lo scempio, ma cosa ti diceva il cervello? La testa ti serviva solo per tener appese le orecchie?
Comunque, bando all’insensata cupidigia che ci porta ad arraffare e distruggere l’ambiente. Il mio problema è che non so come visitare questo luogo fantastico, troppo grande da percorrere con il mio mezzo. Starò qui solo un giorno in uno spazio dove potresti perderti per settimane alla scoperta delle sue meraviglie.
Con il mio amico Fabio, ci ricordiamo che entrando in paese abbiamo visto il cartello che segnalava un aeroporto. Chissà se c’è un piccolo aereo per dare almeno uno sguardo dall’alto. Inforchiamo le moto e ci presentiamo all’aerostazione.
Sì, ci dicono, facciamo giri turistici ma occorre prenotarli. Poi, quando pensavamo di aver fallito, un giovane pilota si offre di portarci in volo. Contrattiamo sul prezzo e ci accordiamo per un’ora. Avrei dovuto chiedere con quale aereo, ma voglioso di volare non ho avuto sospetti, fintanto non sono stato messo su una stadera (bilancia) di quelle dove si pesano gli animali.
Ho tenuto il viso rivolto dalla parte opposta alla lunga linea graduata che indica la stazza, non volevo sapere i chili presi a suon di bacon, patate, formaggi e hamburger, ma con un groppo alla gola ho intravisto il piccolo aereo monoelica parcheggiato nel piazzale.
Con il mio amico ci eravamo ripromessi di volare su questi trabiccoli solo se avessero avuto almeno due eliche ma oramai era tardi. Il pilota, aprendo l’unico sportello incernierato controvento, se n’è uscito dicendo: “Questa è l’uscita di sicurezza e dietro il sedile del pilota c’è il sacchetto per il vomito”. Guardo Fabio e dubbioso gli chiedo: “Ma fa sul serio o piglia per il culo?”
L’aereo sobbalza, decolla e quando siamo in aria, ondeggia sensibile ad ogni respiro del vento. Una volta rilassato, inizio a scrutarmi intorno dal finestrino. In basso altissime coste ricoperte di alberi, paludi, fiumi che si avvolgono in anse e spirali, una sterminata savana… e l’uomo?
Fortunatamente nessuna traccia sino a dove l’occhio può arrivare, nessuna costruzione unico segno una pista che appena traccia il suolo per scomparire inghiottita dalla foresta. Il pilota, devo dire bravo, ci porta sopra cascate che si perdono in piccoli laghi bruni dove lo spray, provocato dall’impatto col suolo, si colora di uno splendido arcobaleno rifrangendo la luce. Non ho più pensato al fragile mezzo; solo all’impatto al suolo, allo stridere delle ruote, al rumore dei freni ho compreso che il sogno era finito.
Il Billabong – Kakadu National Park
Billabong non è il nome della nota marca di abbigliamento sportivo, ma come vengono chiamate qui le grandi aree umide dove l’acqua ristagna durante la stagione delle piogge, fino, talvolta, a prosciugarsi quasi interamente durante la stagione secca.
Il Billabong che sto per visitare è enorme, l’aria è immobile, il cielo si specchia sulla superficie. Se non fosse per la verde erba coperta di ninfee sul margine della laguna, potresti pensare di avere il cielo per tappeto. Se guardi in alto sui rami disseccati di alberi morti, immobili, stazionano gli uccelli, fermi sembrano posare vanitosi per mostrare tutta la loro bellezza.
Maestose aquile pescatrici, aironi, garzette, anatre, azzurri martin pescatori. Gigantesche libellule volano sul pelo dell’acqua, grossi barramundi saltano fuori per farne incetta. Mangrovie dalle intricate radici fiancheggiano il canale che stiamo percorrendo, nella penombra qualcosa di primordiale si muove, grosse scaglie, un lungo muso appoggiato a un banco di erba che galleggia, qualcosa mi fissa con un grande occhio giallo, un coccodrillo di almeno di cinque metri staziona sul pelo dell’acqua.
Il ranger che ci accompagna dice che solo dopo il tramonto diventano più aggressivi alla ricerca di cibo, ma sono le sei il sole è basso e non credo che questo abbia l’orologio. Facilmente con un colpo di coda potrebbe rovesciare la nostra imbarcazione.
Qui tutto è teso a sopravvivere, tutti sono a caccia di tutti, un pesce ha afferrato un uccello, un’aquila con sapiente abilità sfiorando appena la superficie ne porta uno verso il suo nido. Per la cronaca, in casi eccezionali i barramundi possono arrivare a più di cento chili.
Dobbiamo rientrare, il sole ha colorato di viola le nubi e ora giallo sta scomparendo sul margine della laguna. “Mors tua vita mea”, la tua morte è la mia vita, sembra essere il verbo di questi luoghi di primordiale bellezza.
I canguri del Litchfield National Park
Questo è il mio ultimo giorno per parchi. Il bungalow che ho affittato è al margine di una grande radura con al centro solo un piccolo albero. La luce bassa dona colori dorati alle cose. Un gruppo di mucche pascola sprofondato nella prateria.
Sorseggio una birra sdraiato sulla veranda quando intravedo qualcos’altro che si muove tra i lunghi fili d’erba, non sono vitelli ma un grande branco di canguri. Mi alzo a piedi nudi e mi avvicino al margine della radura, il prato è già umido di rugiada, non mi dispiace sentire la terra tra le dita.
Appoggiato al palo della bassa staccionata che mi separa dal pascolo, attendo che gli animali si avvicinino. Troppo verde l’erba, non so ma credo che il sapore sia delizioso.
Mi ignorano, continuano a venire avanti. Voglio immaginare sia per un ultimo saluto, per lasciarmi un’ultima immagine di incredibile bellezza da imprimere nella memoria. Ho un nodo allo stomaco.
Darwin
Vi può sembrare strano che in questo mio racconto non abbia parlato di strada. Sapete quanto adoro il semplice viaggiare senza meta, ma quella è stata la magica polvere capace di connettere altri mondi, di unire cose e com’era nella Bussola d’oro, allentando la percezione di noi stessi, per renderci partecipi e navigare in spazi che apparentemente non ci appartengono.
Il tempo del sogno, del mio sogno, così si esaurisce a Darwin, sulla battigia di un meraviglioso mare deserto. Qui nessuno può fare il bagno e nemmeno prendere il sole, qui regna lui, il saltwater crocodile.
Al prossimo viaggio.
(3 – fine)