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giovedì, Luglio 3, 2025

Guerra, narrazione e disincanto: una risposta a Paolo Benini

Nel suo blog ha scritto su Guerra e profezie. Merita un confronto articolato e diretto

Caro Paolo (foto), ho letto il tuo intervento con attenzione e con il rispetto che si deve a chi, come te, pone questioni scomode, non cerca l’applauso facile e non teme di attraversare zone d’ombra del pensiero. Ma proprio per questo, sento il bisogno di confrontarmi con alcune delle tue affermazioni, perché in ciò che scrivi c’è una lucidità ammirevole e al tempo stesso, a mio avviso, un rischio: quello del disincanto sterile, della consapevolezza che rinuncia a ogni tentativo di trasformazione.

Parto da una tua frase chiave: “La guerra è la conseguenza di narrazioni collettive che alimentano ansia e sospetto, fino a trasformare l’ipotesi in certezza e la paura in un progetto operativo”.

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È vero, e non lo si scopre oggi. La propaganda bellica – o se vogliamo dirla in modo più tecnico, la costruzione simbolica del nemico – è sempre stata parte della macchina della guerra. Ma la narrazione non è un’illusione da smascherare una volta per tutte: è parte costitutiva della realtà sociale. Le parole non descrivono soltanto: creano, definiscono, indirizzano. Il punto allora non è liberarsi dalle narrazioni, ma scegliere quali narrazioni alimentare. Se non lo facciamo noi, lo faranno altri, con altri fini.

Tu sembri suggerire che l’unica via sia quella della consapevolezza individuale, di chi, come il tuo Toni Ciccione, sa come vanno le cose ma non si mescola con il coro. Ma se il mondo resta in mano a chi urla più forte, a chi semina paura e guadagna dividendi sul panico collettivo, allora la tua posizione rischia di diventare una forma raffinata di resa. Elegante, sì. Ma pur sempre una resa.

C’è poi un altro punto che mi inquieta. Scrivi: “Un individuo può anche aprire gli occhi, ma la massa? Quella non capirà mai un accidenti”.

Questa affermazione, così netta, ha dentro un nocciolo di aristocrazia intellettuale che, sebbene comprensibile nella tua analisi, rischia di chiudere ogni possibilità di educazione, confronto, emancipazione collettiva. Io non credo che la massa sia impermeabile per natura. Penso, piuttosto, che sia stata sottoposta a un costante processo di infantilizzazione culturale, spesso proprio da chi ha interesse a tenerla “massa” e non “popolo”. Ed è anche per questo che il lavoro di chi scrive, di chi parla in pubblico, di chi educa – nel senso profondo del termine – non è affatto inutile.

Citi Epitteto, Nietzsche, Evola. E anche su questo vorrei dirti qualcosa. Quando Nietzsche ci avverte del rischio di diventare mostri, non ci sta invitando al ritiro; ci sta ricordando la responsabilità etica che ogni sguardo profondo comporta. Evola, con la sua idea di “cavalcare la tigre”, ha ispirato intere generazioni di solitari spirituali e aristocratici del pensiero, ma oggi mi chiedo se non sia arrivato il momento di imparare a cavalcare i conflitti, più che la tigre, mettendoci dentro – con lucidità – ma anche con la voglia di sporcarsi le mani. Senza lasciarsi sbranare, certo. Ma neanche rimanendo a guardare.

Perché, in fin dei conti, la tua stessa analisi lo dimostra: le parole sono armi, e allora vale la pena chiedersi per chi, e per cosa, decidiamo di usarle. Anche la tua scrittura, che pretende distacco e osservazione, ha una forza trasformativa. A maggior ragione, chi la possiede dovrebbe fare i conti con la possibilità – non il dovere, ma la possibilità – di orientare, e non solo di segnalare.

Chiudo con una domanda: se tutto è racconto, se ogni pensiero è narrazione da cui diffidare, perché scrivere? Perché analizzare?

Forse perché, anche in mezzo al disincanto, qualcosa merita ancora di essere detto e ascoltato…

E allora, tra lo spettatore lucido e il narratore coinvolto, io scelgo di stare dalla parte di chi prova, anche oggi, a raccontare in modo diverso. Sapendo che la storia che racconti – anche se non è la verità – può comunque aiutare a smascherare quella sbagliata.

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