La squadra di carpentieri che avevo in cantiere al mio primo getto delle fondazioni era bergamasca: io davo istruzioni in italiano e gli operai parlavano in dialetto tra di loro.
Non capivo niente di cosa stessero dicendo e avevo continuamente il dubbio che non ci fossimo capiti. L’ingegnere, con malcelato sarcasmo, mi fece notare l’importanza di conoscere le lingue. Da allora ho sempre cercato di instaurare un dialogo costruttivo con le maestranze: capire chi sono, da dove vengono, cosa li ha portati qui.
Un paio di anni fa ho in cantiere una ditta autoctona: è in programma una lavorazione che non ho mai fatto eseguire prima, motivo per cui chiedo l’intervento del rappresentante del prodotto per essere sicura che tutto sia chiaro, non soltanto per me ma anche, e soprattutto, per l’esecutore materiale. Saremmo pronti per cominciare quando, improvvisamente e senza una spiegazione soddisfacente, l’impresa si rifiuta di eseguire il compito assegnatole: bisogna trovare urgentemente una ditta disposta a sostituirli o le lavorazioni dovranno essere sospese.
Comincio a fare qualche telefonata, finchè una ditta con cui lavoro spesso non mi propone una soluzione: possono indicarmi un loro collaboratore. “Ma è albanese”, precisano. Lo dicono così, usando la congiunzione avversativa. Mi spiegano che sono soliti specificarlo perché c’è chi non vuole stranieri in cantiere. Per quanto mi riguarda, il discrimine non sta nella provenienza, ma nella serietà e nelle capacità.
Mi faccio dare il recapito. Parliamo al telefono: chiedo un preventivo economico e l’orizzonte temporale entro il quale pensano di intervenire. Si scusano perché non sanno scrivere bene in italiano, ma possono scrivermi la cifra e la data di inizio e fine delle lavorazioni. Mi spiegano, non senza imbarazzo, di dover chiedere ai figli, che hanno fatto le scuole in Italia, di scrivere le offerte. Immagino questi adolescenti alle prese con i computi metrici invece che con le equazioni.
Trovato l’accordo, arrivano in cantiere. Spiego loro i passaggi che dovranno eseguire: li sentono solo da me, perché il rappresentante non può tornare. La lavorazione non è difficile, ma richiede una certa cura e una certa attenzione. Lavorano alacremente e terminano il lavoro nei tempi e nei modi concordati, rispettando il preventivo, con precisione, senza sprecare materiale.
Durante le visite in cantiere, capita di fermarsi a parlare. Chiedo loro da quanto sono in Italia e perché siano arrivati proprio a Siena. Mi rispondono di essere scappati dalla guerra in Macedonia: al loro paese erano commercianti, gestivano un’attività a conduzione familiare. Una mattina non hanno trovato più nulla: infissi divelti, negozio saccheggiato. E hanno deciso di partire. Sono arrivati a Siena perché un loro compaesano già viveva in queste zone. Non avevano un lavoro e non avevano mai fatto i muratori prima di allora, ma all’epoca nell’edilizia il lavoro si trovava facilmente e così hanno iniziato. Poi sono arrivati i fratelli, infine i genitori. Con il tempo hanno acquistato una casa in campagna, oggi fanno l’orto e allevano galline.
Il giorno dell’ultimo sopralluogo, si presentano con un sacchetto pieno di uova fresche. Sono un pensiero per me e per la mia famiglia, dicono.
Mai pensiero fu più apprezzato.