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martedì, Maggio 13, 2025

Il coltello sta a un ragazzo quanto l’illusione al potere

Paolo Benini accetta la suggestione di Stefano Bisi e dà la sua visione

Riprendo l’interrogativo di Stefano Bisi che a mio modo di vedere è secco ma giusto: perché dei ragazzi girano con un telefonino e un coltello? Una domanda vera, intelligente. Ma subito ne nasce un’altra: quante persone ne sono davvero a conoscenza? E quante leggeranno una risposta come questa? Forse poche. Forse preferiranno continuare con i commenti sdegnati su Facebook, mentre sorseggiano uno spritz al tavolino, rassicurati dalla distanza tra sé e “il problema”. Ma noi non ci arrendiamo. Diciamo cose senza aver nulla da guadagnare. Perché, prima o poi, qualcuno leggerà. E magari inizierà a vedere.

Ebbene caro Stefano, hanno coltello e telefonino perché sono bande. E le bande esistono da sempre. Non sono un prodotto della moda, ma dell’assenza. Nascono dove mancano presidi veri, dove gli adulti si sono ritirati, dove il linguaggio dell’autorità è stato sostituito dal rumore di fondo. Sono primitive, sì, ma non improvvisate. Dentro ci trovi riconoscimento, ruolo, gerarchia, appartenenza. Tre cose che oggi nessuno sa più fornire con continuità. Non lo fanno le famiglie disgregate, non lo fa la scuola che delega, non lo fa una società che predica l’inclusione ma non sa nemmeno dove cominciare.

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La guerra dei bottoni lo raccontava già più di cent’anni fa: bande di bambini che si sfidano per l’onore del proprio villaggio, con codici, con ritualità, con ferocia infantile ma anche con coerenza. Anche Gangs of New York, anche C’era una volta in America, sono narrazioni di bande: selvagge ma strutturate, violente ma riconoscibili, con regole interne e forme di giustizia proprie. E poi I ragazzi della via Pál, quel piccolo capolavoro di Molnár in cui un gruppo di adolescenti organizza turni di guardia per difendere un campo vuoto, simbolo di qualcosa più grande di loro. Lì dentro c’è il senso della lealtà, la disciplina, persino il sacrificio. Nemecsek, il più fragile, muore per il suo gruppo, per il suo codice. Era un gioco, ma era tutto vero. Era una cultura, persino un’etica.

Oggi no. Oggi quei modelli si replicano in forma attuale, spesso come un aborto di sistema, come tanti altri aborti di sistema. Non sono bande con un codice: sono embrioni di aggregati di confusione , linguaggi rotti, frammenti raccolti dalla rete e trasformati in identità temporanee. Il coltello è una protesi di potere, il telefonino una protesi di visibilità. Uno serve a imporsi, l’altro a mostrarsi. In mezzo non c’è educazione, non c’è senso, non c’è progetto.

E allora? Che ne facciamo di questi ragazzi, di quelli che non finiscono in carcere? Li infiliamo nei CAG, nei progetti sociali, nelle filiere infinite dell’inclusione a budget? Siamo davvero convinti che basti riunirli in uno spazio neutro per risolvere? O stiamo semplicemente spostando il problema da un luogo all’altro, travestendolo da occasione? O serve come tante altre iniziative dello stesso tipo, ad aprire le porte del paradiso a chi le porta avanti?

La verità è che molti di questi spazi diventano centri di consolidamento del disagio, non di trasformazione. E la verità più amara è che, spesso, a chi gestisce questi spazi, il disagio serve. Immagino lo sdegno a leggere questa affermazione: si serve per l’anima e per i soldi. Senza problema non c’è progetto. Senza progetto non c’è fondazione, bando, visibilità. Quindi la domanda scomoda è questa: è il disagio che cerca aiuto o alla fine diventa il sistema dell’aiuto che scivola nell’aver bisogno del disagio per sopravvivere?

E la scuola? La scuola italiana è completamente inefficace sul piano formativo, mi pare lo vediamo spesso. Giusto? Produce ore, contenuti, programmi, ma ha smesso di formare. Intanto pensa a decine di inutili moduli educativi da inserire per tamponare questa o quella falla. Sarebbero sufficenti la disciplina, l’autodisciplina e il rispetto. Invece bisogna far chiacchiere. Risolveremo tutto o quasi tutto.

In alcuni quartieri americani si è risposto al disagio con l’iperscolarizzazione strutturata: orari lunghi, regole chiare, rigore, educazione all’autocontrollo. Non per produrre nozionismo, ma per allenare alla disciplina. Sì, disciplina, una parola che qui fa ancora paura. Ma è proprio da lì che passa ogni possibilità di salvezza. Dalla capacità di stare, di reggere, di sopportare. Di affrontare la frustrazione senza distruggere qualcosa o qualcuno.

Perché qualcuno ce la fa. Pochi, ma ci sono. E quasi sempre hanno avuto due cose. La prima è un adulto che ha creduto in loro senza pietismo, ribadisco senza il pietismo bavoso che tanto piace alle anime pure. La seconda è il momento in cui hanno scoperto di poter reggere il peso della fatica. Chi nasce nel disagio parte in salita. E il talento non basta. Serve struttura. Serve un contesto esigente. Serve imparare a sopportare il vuoto, a rimandare la gratificazione, a costruire un’identità che non dipenda da un’arma o da uno schermo.

Serve educare alla frustrazione. Perché senza quella, nessuna identità regge. E nessun coltello verrà mai messo via per davvero.

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