Ottava puntata delle avventure e disavventure di un povero viaggiatore in Mongolia
Dopo la potenza silenziosa della Valle dell’Orkhon e l’eco lontana di Karakorum, riprendo la strada. Mi allontano da quei luoghi con un po’ di nostalgia, ma la Mongolia è fatta così: ti sfugge e ti chiama, sempre un passo più in là. Davanti a me, le dune di sabbia e un monte sacro che conserva leggende antiche. Inizia un’altra tappa.

Ho lasciato Kharkhorin con le sue strade sterrate, un povero ammasso di baracche dai colori variopinti, contornate da stanchi fili elettrici che ciondolano tristemente dai pali.
L’antica capitale oggi ha tre palazzoni moderni al centro, un piccolo museo e il grande monastero, profondamente ferito dal socialismo reale, che con tenace volontà tentò di cancellare l’identità di questo popolo fiero. Un triste destino per le vestigia della città fortemente voluta dal figlio di Gengis Khan.
Purtroppo, mi lascio alle spalle anche la valle dell’Orkhon. Frugo nella mente ma non riesco a trovare un altro luogo al mondo così evocativo, capace di provocarmi emozioni tanto forti. Un luogo dove la natura intatta è padrona, e l’uomo non è predatore.

Mentre viaggio assorto nei pensieri, zigzagando tra le buche dell’incerta strada, su una collinetta intravedo un gruppo di stupe. Di solito custodiscono reliquie. Mi avvicino: il luogo è sopraelevato di un paio di centinaia di metri rispetto al percorso.
Salgo sulla cima per ammirare le costruzioni e il paesaggio che le circonda. I sacri edifici sono adagiati in una posizione incantevole. Non conosco il motivo della loro costruzione: non c’è alcun cartello o iscrizione, ma la vista è magnifica. L’occhio si perde su una pianura lontana, con le nuvole che corrono veloci proiettando ombre sui prati. Piccoli laghi brillano, intagliati nel verde.

Sto viaggiando in direzione delle dune di Khögnö Khan Uul — o Mongol Els, come le chiamano i turisti. Ogni chilometro riserva sorprese. Ora la pista costeggia un fiume dal colore rosso vermiglio. Tra il giallo della sabbia sembra scorrere un rivolo di sangue. Mi avvicino per capire.

Il rosso non è dell’acqua, che scorre cristallina, ma delle rocce sul fondo, accese come brace. Accanto, cavalli brucano tranquilli lungo la riva. Dopo tanti giorni di viaggio ancora non comprendo del tutto il rapporto tra gli animali e l’uomo in queste terre. Gli animali non scappano, si lasciano avvicinare docili, come se non conoscessero la paura.
In una piccola rientranza tra alte pareti di roccia raggiungo il campo di gher dove trascorrerò la notte. Intorno, solo sabbia, con radi fili d’erba e cespugli spinosi. Il verde li fa sembrare innocui, ma le mie gambe graffiate testimoniano il contrario.

Lascio i bagagli nella tenda e corro via. Questo è solo un punto d’appoggio. Ci sono due luoghi vicini che voglio visitare. Il primo è il monastero di Erdene Khamba, ai piedi del monte Khögnö Khan. La strada è fantastica. Si snoda tra rocce di granito scolpite dal vento, arrotondate dall’acqua e levigate dal gelo invernale. Sembrano sculture.
La stretta valle somiglia a un presepe. Ogni cosa appare disposta con cura: la vegetazione, i piccoli templi, le minuscole case. Mi chiedo come qui potessero vivere oltre mille persone, nei tempi del massimo splendore del tempio. Oggi i monaci non lo presidiano più. Tornano solo ogni tanto, per onorare questa terra, dove la leggenda racconta che alcuni di loro furono uccisi, condannati a morte dal re della Mongolia occidentale, Galdan Boshigt. Furono decapitati. In mongolo, questa morte si chiama Khögnö — ed è da qui che prende nome la montagna.

Il tempo passa veloce. Devo muovermi prima che si faccia sera. È da stamani che giro attorno al deserto: le alte dune mi attirano come una calamita. Voglio sentire la moto sbandare, arrampicarmi fino alla cima e scendere poi nelle valli, perdendomi in questo mare di sabbia.
Avvicinandomi, il paesaggio cambia. Metto le ruote su una superficie inconsistente. La moto ondeggia. Accelero per galleggiare. Come un bambino, salgo e scendo, surfando sulla sabbia. Mi fermo su una morbida collina, increspata dal vento. Cerco di affondare i piedi come fossero radici, sperando di trattenere in me la gioia di questi momenti.

Cammino. E la sabbia inizia a “cantare”. Emette un suono profondo, simile a un ronzio o a un lamento lontano. Il suono sale dal basso, come se la terra respirasse. I nomadi dicono che il Gobi ha voce, ma parla solo con chi sa ascoltare. La leggenda vuole che questo suono abbia guidato i viandanti fuori dai pericoli del deserto.
La sabbia è composta da granelli della stessa dimensione. L’estrema siccità, e lo scivolamento simultaneo, le mette in risonanza. Vago libero, disperso, felice. Osservo dall’alto, come un falco. I pensieri veleggiano leggeri. L’ombra si allunga sulla sabbia. Perché questo giorno deve finire?

Ho chiesto agli Dei di fermare il sole sulla linea dell’orizzonte, ma non mi hanno ascoltato. Inesorabile, il disco ha compiuto il suo ciclo. Seduto sulla panca della gher, cerco di rimettere in ordine i pensieri. Mi addormento tardi. Ho guardato a lungo le stelle. Non so se ho dormito qualche ora o pochi minuti. Quando la luce dell’alba inizia a filtrare, sul pavimento qualcosa si muove.
Un rospo. Calmo, pacifico, è entrato da sotto la porta e percorre la gher con il suo buffo passo dondolante. Lo osservo uscire da un buco sull’altro lato, per nulla turbato dai miei movimenti. È ovvio: sono io a occupare il suo sentiero.
Dischiudo la porta per osservare l’alba. Il cielo si tinge di rosa. Le rotonde montagne, le onde di sabbia lontane, tutto è silenzioso. L’odore dell’erba pizzica il naso: profumi dimenticati, lontani dall’olezzo delle città.

Faccio i bagagli. È l’ultimo tratto di strada. Ciondolo, mi gingillo, lo sguardo nel vuoto.
È quasi finita. Non ho voglia di partire.
Mi scuoto. Accendo la moto. In piedi sulle pedane, mi muovo sugli ultimi gradoni di sabbia. Appoggio la moto sui cigli, disegno curve rotonde, do gas. Sotto il casco, sorrido. Che gioia infinita: scivolare, dondolare, derapare.
Forse non tutti possono capire cosa si prova a conquistare ogni metro di strada, buca dopo buca. Camminare su ogni terreno. Rompere e riparare. Fermarsi per ripartire. Con solo una flebile idea di percorso, che esiste solo nella tua testa.
E quando arrivi, dopo un minuto, vuoi già ripartire. Per scoprire cosa? Nulla. Solo per vedere qualche metro più in là. Fino alla prossima curva, sicuro che ce ne sarà sempre un’altra. Questo, per me, è viaggiare.

Dopo trecento chilometri di steppa, ritrovo l’asfalto. All’ingresso di Ulan Bator, alcuni uomini sbarrano la strada. In una sorta di casello ci irrorano con disinfettante. Vogliono essere certi che non portiamo con noi i germi della campagna.
Mi piace pensare che cerchino — invano — di tamponare la libertà dei luoghi attraversati. Luoghi che potrebbero “contaminare” una civiltà che, come plastica stampata, ci impone di essere tutti uguali, allineati nella distruzione di un pianeta che ci è stato madre.
Questa non è la fine. È l’inizio di una nuova avventura. Qualcuno la chiama wanderlust: fame insaziabile di partire, di vedere, di perdersi e ritrovarsi altrove. Non è una malattia, anche se a volte brucia come tale.
È un impulso antico, scritto forse nel nostro DNA nomade. O nel cuore di chi sa che restare… non è sempre vivere.
Se vi fa piacere, continuate a seguire le storie che la strada ci propone. Al prossimo lunedì. E come sempre: Se tutto è andato bene, allora nulla è andato bene. Stay Wild, Stay Shanti.
(8 – continua)