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martedì, Luglio 22, 2025

L’incontro con l’India: una vita da aggiungere

Le avventure e le disavventure di un povero viaggiatore che ha deciso di “riprovare” a scorrazzare nell’India

Lunedì scorso vi ho raccontato di come mi sono procurato un mezzo di locomozione, la mia amata moto. Oggi vorrei fare un passo indietro e descrivervi il mio secondo incontro con l’India: l’arrivo a Delhi.

Un corto inverno

Sembra che l’inverno sia già alla fine. Ho passato questa strana, tiepida stagione contando i giorni. Una smania insofferente rendeva difficile il quotidiano. La partenza è sempre uno spartiacque: c’è un prima e un dopo.

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Un tempo, chiudendo la valigia, avevo la costante sensazione di dimenticare qualcosa d’importante. Ora potrei partire con solo gli abiti che indosso, come se la parte piena della vita fosse dall’altro lato. Come se “di là” ci fosse tutto quello di cui ho davvero bisogno.

Con il tempo ho scoperto che non erano le cose dimenticate a darmi ansia, ma la paura di non essere adeguato al mondo. La paura di lasciare la comodità di una routine costruita, nota. Quella routine che mi faceva preferire un comodo recinto di cose conosciute. Che mi teneva, mi ingabbiava, in un quotidiano senza imprevisti.

Quante volte mi sono sentito dire: «Ma dove vai? Che ci vai a fare?» Chi poneva la domanda non poteva sapere quante volte me la fossi fatta io stesso.

Ma poi, piano piano, ho capito che la vita non è solo allontanare, levare cose per lasciare solo ciò che non fa paura — spesso solo perché non lo capiamo. La vita è aggiungere. Scoprire. Accogliere le mille facce del mondo, che solo insieme raccontano davvero cos’è vivere.

In questo viaggio torno in Rajasthan. Quando si è presentata l’occasione, non ho esitato. Ho accettato l’invito quasi senza pensare. Poi mi sono chiesto: perché tornare in luoghi dove ho già posato i miei passi?

La risposta è arrivata subito: perché la volta scorsa non ero pronto. Non ero preparato ad affrontare l’estremo della miseria. Mi imbarazzavano i sorrisi dei bambini di strada che ti tirano per la giacca, in cerca spasmodica di una moneta. Trovavo insopportabile il contrasto con le magnifiche dimore dei Maharaja. Mi intimorivano la spazzatura nelle strade, le vite appese a mille lavori precari.

Confesso che spesso ho girato la testa, con profondo disagio. Ho cercato di distogliere lo sguardo da ciò che ritenevo insopportabile e di trattenere solo quello che definivo “bello”, isolandolo dal contesto.

Non è che oggi io sia più cinico o più forte. La mia “scatola degli attrezzi” per affrontare la vita è sempre la stessa. Ma credo nella forza del racconto. Credo nelle parole. E se anche solo una persona, leggendo, troverà il coraggio di partire, di camminare sulla strada, in mezzo alla gente, per vedere davvero — senza paura — allora sarà valsa la pena scrivere, viaggiare e raccontare.

Ultimo volo con la vecchia compagnia di bandiera

Il volo diretto Roma–Delhi con Alitalia è strano. A differenza dei tanti voli intercontinentali presi in passato, hostess e steward hanno tutti una certa età. Il personale sembra invecchiato insieme alla compagnia. Eppure è tutto piacevole: sembra di viaggiare assistiti da una zia gentile e premurosa, vicina alla pensione.

Si muovono con sicurezza, nei gesti ripetuti di una vita. Volteggiano come distinti maggiordomi nella loro sdrucita livrea, riluttanti ad abbandonare il decaduto padrone.

Atterriamo nel buio. Sono le due di notte. Solo le luci verdi di cortesia rischiarano la cabina.
Mi sento un po’ come Neo in Matrix, quando Morpheus gli chiede di scegliere tra la pillola rossa e la pillola blu. Neo prende la rossa: quella che lo stacca dalla placenta della sua vita artificiale e lo spinge a scoprire il mondo reale.

L’aereo cabra. Abbassa il muso. Atterriamo. Sento che in mano ho la mia pillola rossa. Chissà quanto è profonda la tana del Bianconiglio. “Benvenuto a Delhi” dice il cartello.

Delhi

Il risveglio, dopo poche ore di sonno, è traumatico. Il corpo non collabora. Rumori di ogni genere salgono dalla strada: urla, motori, musica. Cerco di recuperare la mobilità. Mi getto sotto la doccia, poi scendo a cercare i compagni. Devo sbrigarmi: stasera dobbiamo sistemare le moto per il viaggio. Ma prima: un giro nella città vecchia. Per respirare l’anima dell’India.

Cerco un tuk tuk. Dopo una lunga trattativa riesco a spuntare 150 rupie per 6 km. Solo più tardi realizzo che sono circa 2 euro e mezzo.

L’ingresso nella città vecchia è scioccante. Le case sembrano stratificate come sedimenti. Incollate dalla polvere. Tirate su dai fili elettrici che corrono da una parte all’altra come nervature. Da soli sembrano reggere le fatiscenti facciate.

La via è fiancheggiata da ogni tipo di negozio. La merce è polverosa, accatastata fuori dalle porte. I ristoranti cucinano sulla strada. Cibo disposto in unte vetrine. A fianco degli ingressi, sul selciato, lunghe file di poveri, compostamente seduti con le gambe incrociate, aspettano un po’ di naan unto di burro. Donato dai proprietari dei locali.

Nessun lamento. Solo attesa. Come se l’unica speranza fosse racchiusa in quella crosta di pane. Mi allontano lasciandomi alle spalle di tutto, lustrascarpe, barbieri di strada che esercitano la professione tra un cane rognoso e un albero centenario. In un angolo, una donna rannicchiata in un sari sbiadito ha deposto sul marciapiede una bilancia. Una di quelle da casa. on la testa nascosta tra le pieghe del tessuto, chiede qualche rupia per l’uso. La gente, per strada, si inventa una vita. Appesa a un flebile filo di speranza.

Mi ritrovo di fronte alla scalinata in pietra rossa della Jama Masjid. Tolgo le scarpe. Un uomo si offre di custodirle. Gliele affido. Le vedo lì, in bella mostra. Spero di non dover tornare a piedi nudi. La moschea è piena di gente. Massicce mura racchiudono una grande piazza. Al centro una fontana riflette il colonnato rivolto alla Mecca. Mi avvicino al minbar, il piccolo pulpito. Poi salgo sul minareto.

Centoventi scalini alti, faticosi. Arrivo in cima con le gambe dolenti. Mi affaccio: sotto, la città ribolle. Una nebbiolina azzurrina la avvolge. Sembra che i passi della folla sollevino la polvere dal selciato.

La città non ha fine. Casa su casa, si dissolve in un orizzonte tremolante e incerto. Il tramonto è vicino. La polvere ingoia Delhi. Questa è una delle città più inquinate al mondo.
Decine di milioni di persone vivono come sotto tortura invisibile. Qui si perdono fino a 12 anni di vita. Non per guerre, né pandemie. Per respirare.

Al prossimo lunedì. E come sempre… Se tutto è andato bene, allora nulla è andato bene. Stay Wild, Stay Shanti.

(12 – continua)

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