Per “Insoliti Viaggiatori”, esperienze che cambiano la vita: da una settimana con gli Inuit al matrimonio curdo, alla Namibia
Maurizio Pistore è molto più di un motociclista che ha attraversato il mondo. È un viaggiatore che ha trasformato il viaggio in moto in un’esperienza di conoscenza, esplorazione e condivisione. Nato e cresciuto in un contesto semplice, con genitori appassionati di moto, ha coltivato fin da piccolo l’idea che viaggiare significhi scoprire e imparare.
Dopo aver acquistato il suo primo motorino con i risparmi di un lavoro impegnativo a soli 14 anni, ha continuato a inseguire la sua passione, esplorando paesi vicini e lontani. Oggi, Maurizio ha attraversato i cinque continenti in sella a moto di ogni tipo, dai percorsi africani al gelo del Canada, portando con sé non solo il desiderio di scoperta, ma anche una missione solidale. Ogni suo viaggio è legato a cause umanitarie, come la collaborazione con Emergency o progetti per costruire pozzi in Mauritania.
Maurizio ama definirsi un motociclista “non tecnico”, ma le sue esperienze raccontano una storia diversa. Dai matrimoni curdi alle settimane passate con comunità inuit, dai deserti africani alle foreste dell’Amazzonia, la sua vita è costellata di storie uniche e incontri straordinari. Più che un viaggiatore epico, Maurizio Pistore è un narratore di umanità, che attraverso la moto costruisce ponti tra culture e persone.
Premessa
Quando ho incontrato Maurizio Pistore per la prima volta, sono rimasto colpito dalla semplicità con cui racconta le sue straordinarie avventure. Dietro ai 100.000 chilometri percorsi e ai tanti luoghi attraversati, emerge un uomo che vive il viaggio non per collezionare record, ma per esplorare il senso profondo della scoperta. Durante una lunga chiacchierata, mi ha parlato delle sue origini, della passione nata da bambino osservando i genitori partire in moto, dei primi sacrifici per acquistare il suo motorino, e di come il viaggio gli abbia insegnato a conoscere il mondo e sé stesso.
Maurizio è anche un uomo che ha legato le sue esperienze a un forte senso di solidarietà. Dal sostegno a Emergency al finanziamento di progetti educativi e infrastrutturali nei paesi visitati, il suo approccio al viaggio è sempre stato segnato dalla volontà di lasciare qualcosa di positivo.
Questa intervista nasce da quella nostra prima chiacchierata, con l’obiettivo di non raccontare solo le imprese, ma di scavare più a fondo: cosa significa davvero viaggiare? Quali sono le emozioni, le sfide, le lezioni che portano un uomo a continuare a partire, ancora e ancora? Le risposte sono un dialogo che spero riesca a trasmettere non solo la storia di un viaggiatore, ma di una persona.
Le Origini e l’Essenza del Viaggio
Raccontami di quel bambino che guardava i genitori partire in moto: che cosa provavi in quei momenti? È lì che hai sentito nascere il tuo desiderio di viaggiare?
“Non saprei dire con certezza, Luca, ma ripensandoci credo che qualcosa sia rimasto impresso in me. Da bambino, osservavo i miei genitori partire in moto con i loro amici, mia madre seduta di lato sulla sella, senza casco, con un fazzoletto annodato dietro la nuca, come si usava allora. Era una scena semplice ma piena di fascino, e mi ha colpito profondamente, anche se all’epoca non potevo immaginare che avrebbe avuto un ruolo così importante nella mia vita. Crescendo, quando qualcuno mi ha chiesto da dove venisse la mia passione per i viaggi in moto, ho iniziato a pensare che forse tutto era iniziato lì. Quel ricordo, fatto di piccoli dettagli e di un senso di libertà, è rimasto dentro di me, come un piacere da emulare. Forse la voglia di imitare i miei genitori è arrivata più tardi, ma in quei momenti c’era sicuramente qualcosa che mi ha segnato”.
Hai iniziato giovanissimo, con sacrifici per comprare il tuo primo motorino. Cosa significava per te, allora, avere quel mezzo? Era libertà, indipendenza o qualcos’altro?
“Ripensandoci, quando tutto è successo, non avevo aspettative particolari. Era più una questione di invidia, lo ammetto, nei confronti dei miei amici che avevano già il loro motorino. Io, figlio di un operaio, non potevo permettermelo. Mio padre è stato eccezionale sotto tanti aspetti, ma le possibilità economiche erano limitate. Così decisi di guadagnarmelo da solo: andai a lavorare. Quel sacrificio si trasformò presto in una grande soddisfazione, perché il motorino che desideravo tanto l’ho comprato con i soldi che avevo guadagnato io. Per farlo, lavoravo in una zincheria a pochi passi da casa. Era un mestiere pesante, dove bisognava immergere telai metallici in vasche di acido per trattarli. Quando li tiravi fuori con le braccia, l’acido rimaneva sulla pelle. Tornavo a casa con la pelle delle mani e delle braccia rovinata, e mia madre si arrabbiava. Mi prendeva a sculacciate, diceva che non dovevo più andare, ma io insistevo: ‘Devo prendermi il motorino’. Ora, a distanza di anni, ricordo quei giorni con piacere. Non solo per il motorino in sé, ma per quello che rappresentava: un primo passo verso l’indipendenza, una soddisfazione conquistata con il lavoro e la determinazione. È una storia che ancora porto nel cuore”.
Hai detto che sei “un pessimo motociclista” ma che ami profondamente viaggiare in moto. Cosa rende questo mezzo così speciale per te?
“Sì, l’ho detto più volte: non sono un gran motociclista. Non sono mai stato particolarmente abile nella guida, e i terreni difficili come sterrati, sabbia o fango continuano a mettermi in difficoltà, anche oggi. Con il tempo ho acquisito un po’ più di esperienza, ma non sono certo un pilota eccezionale. Eppure, viaggiare in moto ha qualcosa di unico: ti espone, ti mette a contatto diretto con l’ambiente che attraversi. La moto non è solo un mezzo di trasporto, è una compagna di viaggio che ti fa sentire parte del paesaggio e ti costringe a confrontarti con ogni sfida in modo immediato. È questa dimensione di autenticità e vulnerabilità che rende speciale il viaggio in moto per me”.
Il Viaggio Come Conoscenza
Hai detto che il viaggio mette a nudo quello che sei veramente. Qual è stata la scoperta più sorprendente o difficile su te stesso che hai fatto lungo la strada?
“Per me, il viaggio è sempre stato una prova di vita, un modo per capire di cosa sono davvero capace. Quando viaggiavo con altri, delegavo spesso a loro cose come trovare un posto dove mangiare o dormire, o affrontare problemi pratici. Ma nei viaggi in solitaria non hai nessuno a cui delegare, e questo ti costringe a tirare fuori tutte le tue risorse. Mi sono trovato in situazioni complicate, come in Kenya, quando ho sbagliato strada e mi sono ritrovato davanti a una discarica. Da lì scendevano verso di me 20 o 30 persone, tutti con un machete. Probabilmente erano solo curiosi di sapere chi fossi, ma in quel momento la paura era tangibile. Situazioni del genere ti mettono alla prova, ti fanno capire quanto è importante mantenere la calma e relazionarti con gli altri. Una cosa che ho imparato è che il dialogo e il sorriso sono armi potentissime. Tanti mi hanno chiesto se porto un’arma con me in viaggio, ma la mia risposta è sempre stata no. Non saprei usarla, e in una situazione di pericolo reale sarebbe più un rischio che un aiuto. Credo fermamente che un sorriso, un approccio amichevole, possa risolvere molte situazioni difficili. Finora, questa filosofia mi ha aiutato a superare ogni ostacolo”.
C’è stato un viaggio che ti ha cambiato profondamente, facendoti tornare a casa diverso da come eri partito?
“Ho iniziato a viaggiare in moto partendo dall’Italia, poi l’Europa e infine i primi paesi più lontani. Ma il viaggio che mi ha davvero cambiato è stato quello da Venezia a Pechino. Prima di allora, avevo partecipato a viaggi organizzati in gruppo, come in Etiopia o in Sudafrica e Namibia, ma in quelle situazioni tendevo a delegare molte responsabilità agli altri, come la logistica e le decisioni quotidiane. Invece, il Venezia-Pechino è stato un’esperienza completamente diversa, non solo per la distanza percorsa, ma per la profondità degli incontri e delle relazioni umane. Ero con due compagni di viaggio: Michele Orlando, un moto-viaggiatore esperto che si occupava dell’organizzazione, e un medico che curava l’aspetto umanitario del viaggio. Michele è stato un maestro nell’arte di pianificare, e ho imparato moltissimo da lui su come si organizza un viaggio complesso. Ma la vera trasformazione è arrivata dagli incontri: dai turchi ai russi, dagli uzbeki ai tagiki fino ai cinesi. Ogni relazione, ogni scambio, mi ha insegnato qualcosa di nuovo su come approcciarmi al viaggio e alle persone. Da quel momento, ho iniziato a vedere il viaggio in moto con occhi diversi. Non più solo un’avventura, ma una sfida personale e un’opportunità di connessione. Ho iniziato a organizzare tutto da solo, lasciando spazio all’improvvisazione. Non prenoto mai nulla, tranne il trasporto della moto quando necessario. Decido giorno per giorno cosa fare: se voglio fermarmi a Samarcanda, mi fermo; se invece decido di proseguire fino a Bucarest, lo faccio senza esitazioni. È questa libertà, questa capacità di adattarmi alle situazioni e di vivere il momento, che mi ha cambiato davvero”.
Preferisci viaggiare da solo o in compagnia? Come cambia la tua percezione del viaggio in queste due situazioni?
“Viaggiare in compagnia e viaggiare da soli sono due esperienze completamente diverse, e ognuna ha i suoi lati unici. Quando viaggio con altri, c’è la bellezza della condivisione: i popoli, i paesaggi, i monumenti, tutto ciò che si incontra diventa ancora più speciale se puoi viverlo insieme a qualcuno. Condividere la gioia di un luogo o di un momento amplifica la passione e l’entusiasmo per quello che stai facendo. D’altro canto, il giro del mondo l’ho fatto da solo, ed è stata una scelta precisa. Viaggiare da soli significa mettersi alla prova. Nel mio caso, era anche una necessità: non è facile trovare qualcuno con un anno di tempo a disposizione e i fondi necessari per un viaggio del genere. Non avevo sponsor, quindi ho affrontato tutto con le mie risorse, e questa sfida personale mi ha spinto a partire da solo.
Viaggiare in solitaria ha significato anche gestire la lontananza da mia moglie Anna, una delle cose più difficili. Durante i primi mesi, la voglia di esplorare luoghi iconici come Machu Picchu, le isole San Blas o i parchi delle Montagne Rocciose mi spingeva avanti. Ma negli ultimi due mesi del viaggio, il desiderio di tornare a casa e abbracciare Anna è diventato sempre più forte. Era un dualismo costante tra il piacere di scoprire e la nostalgia di casa.
Un episodio che non dimenticherò mai è stato il mio arrivo a Parigi, verso la fine del viaggio. Ero emozionato: non ero mai stato nella capitale francese e arrivarci con la mia moto, dopo un anno in giro per il mondo, è stato speciale. Sotto la Tour Eiffel, un poliziotto mi chiese cosa stessi facendo. Quando gli raccontai del mio giro del mondo, mi fece passare le transenne e mi permise di portare la moto proprio sotto la torre per scattare una foto. È stato un momento straordinario, quasi surreale. Viaggiare da soli ti insegna tanto su di te, ma la voglia di tornare a casa dopo un anno di lontananza è stata fortissima. Gli ultimi giorni sono stati un mix di emozioni: il piacere di concludere un viaggio così importante e la gioia di sapere che stavo finalmente tornando a casa”.
Esperienze Indimenticabili
Mi hai raccontato del matrimonio curdo e del cerchio di ballo. Come hai vissuto quel momento, sapendo che stavi partecipando a qualcosa di unico e irripetibile?
“Inizialmente non mi rendevo conto di quanto fosse unico quel momento. Mi trovavo in una zona montuosa a sud di Erzurum, nel territorio curdo, quando mi sono imbattuto in una cerimonia di matrimonio. Quello che mi ha attirato è stato un tripudio di bandiere nei colori rosso, bianco e verde, i simboli della nazione curda. Mi sono fermato con la moto, e quasi subito mi hanno invitato a unirsi a loro: ‘Vieni, vieni!’ mi dicevano. La scena era incredibile. C’erano due gruppi distinti: uno dello sposo e uno della sposa, ognuno che ballava per conto proprio. Poi, a un certo punto, si sono uniti tutti in un unico grande cerchio, un momento simbolico in cui i due sposi salutano le rispettive famiglie per iniziare insieme una nuova vita. Partecipare a quella danza è stato un onore, ma solo più tardi ho realizzato quanto fossi stato fortunato. Non è una cosa che si possa programmare o prevedere: mi sono trovato lì per caso, nel posto giusto al momento giusto. Da quel giorno, il mio interesse per la cultura curda è cresciuto. Ho iniziato a studiare la loro storia e ho capito quanto sia difficile la loro situazione, specialmente oggi, con le tensioni politiche e le azioni di Erdogan. Mi sento privilegiato per aver vissuto quel momento di gioia e di tradizione, in un luogo così isolato e lontano dai circuiti turistici. È un ricordo che porterò sempre con me”.
Essere ospite di una comunità inuit per sette giorni è un’esperienza straordinaria. Cosa hai imparato da loro, non solo come viaggiatore, ma come uomo?
“L’esperienza con la comunità inuit di Gandhi è stata una delle più straordinarie della mia vita, non tanto come viaggiatore, ma dal punto di vista umano. Tutto è iniziato per caso: stavo viaggiando verso Tuktoyaktuk, il punto più a nord del Canada, ma per attraversare il fiume Mackenzie è necessario un traghetto. Quando sono arrivato, ho scoperto che il traghetto era in manutenzione e non c’era una data certa per la ripresa del servizio: potevano volerci giorni, forse settimane. Mi hanno consigliato di tornare indietro di una quarantina di chilometri, dove si trova questa piccola comunità inuit. Così ho piantato la tenda appena fuori dal villaggio. Gandhi è una comunità di circa 500 persone, completamente diversa dall’immagine romantica che avevo in mente: non ci sono più gli inuit vestiti con le pelli di foca; vivono in case moderne e guidano pick-up giganteschi come RAM o Ford. Un tempo cacciatori e pescatori, oggi vivono delle royalties delle grandi compagnie petrolifere. Il mio arrivo ha attirato subito l’attenzione. Proprio mentre sistemavo la tenda, è passata la presidente della comunità, una signora piccola e un po’ rotondetta che si è incuriosita quando ha saputo che venivo da Venezia. Da quel momento, è come se mi avessero adottato. Ogni giorno qualcuno veniva a trovarmi, mi portavano acqua, cibo, e persino un gabinetto chimico per rendermi più confortevole il soggiorno. La Royal Canadian Mounted Police, le celebri Giubbe Rosse, mi hanno regalato una medaglia commemorativa rara, segno della loro accoglienza straordinaria. Quello che più mi ha colpito, però, è stato il senso di comunità. Quando ho perso il mio casco, tutta la popolazione si è mobilitata: a piedi, in bicicletta, con i quad, per cercarlo ovunque. Non mi sarei mai aspettato tanta disponibilità, generosità e gentilezza. Avevo l’idea che gli inuit, come abitanti del Nord, fossero freddi e riservati. Invece, ho trovato una comunità che mi ha accolto con calore e semplicità, dimostrando una straordinaria capacità di entrare in relazione. È un’esperienza che non dimenticherò mai, non solo per l’ospitalità ricevuta, ma per la lezione di umanità che mi hanno dato. Mi hanno fatto capire che l’essenza dell’accoglienza sta nel farsi carico dell’altro senza aspettarsi nulla in cambio, con una generosità che va oltre ogni stereotipo”.
C’è un luogo in cui sei stato che ti ha fatto sentire come se gli appartenessi, anche solo per un momento?
“Se c’è un posto dove mi sono sentito davvero a casa, è stato in Namibia. Non è legato al viaggio in moto, ma a un’esperienza vissuta con mia moglie. Quando eravamo più giovani, scherzavamo spesso sull’idea di trasferirci lì. Ora, con l’età, probabilmente non lo farei più, ma rimane una nazione che mi ha lasciato una sensazione profonda di appartenenza. La Namibia è un luogo unico, con appena due milioni e mezzo di abitanti distribuiti in un territorio vasto una volta e mezzo l’Italia. È un paese con spazi immensi, abitato da persone estremamente disponibili e attente. Ricordo la pulizia e l’ordine delle città, come Windhoek o Swakopmund, dove le influenze tedesche sono evidenti: case con tetti spioventi in un’Africa dove la neve non cade mai, strade curate con spartitraffici verdi e ben tenuti. C’è un senso di organizzazione che mi ha ricordato la Svizzera. Quello che mi ha colpito di più è il clima sociale. Nonostante la storia complessa, in Namibia ho percepito un equilibrio raro: un governo composto sia da bianchi che da neri, senza le tensioni che si vivono nei vicini Zimbabwe o Sudafrica. Non voglio dire che sia un luogo perfetto, perché i problemi esistono ovunque, ma l’armonia tra le diverse etnie mi ha lasciato un’impressione positiva. Devo anche aggiungere che è difficile scegliere un solo luogo come ‘il più bello’. Ogni paese ha qualcosa di unico da offrire, e io cerco sempre di vedere il lato positivo. L’uomo sa essere sia buono che cattivo ovunque, ma io preferisco concentrarmi sulla parte buona. È questo approccio ottimista che mi ha permesso di apprezzare ogni luogo che ho visitato, ma la Namibia rimane speciale”.
Relazioni e Connessioni
Tua moglie è un elemento fondamentale delle tue avventure, anche se spesso è dietro le quinte. Qual è il momento in cui hai sentito più forte il suo supporto?
“Mia moglie è davvero eccezionale, e non lo dico solo io: tutti i miei amici lo riconoscono. Mi dicono spesso quanto sia fortunato ad avere una compagna che non solo mi lascia partire per viaggi così lunghi e impegnativi, ma che li condivide in un certo senso con me, pur restando a casa. Lei sa quanto amo viaggiare, e il fatto che questo mi renda felice la rende felice a sua volta. Ma non si limita a supportarmi emotivamente: ha una capacità organizzativa straordinaria, superiore alla mia. Da sempre, utilizzo un dispositivo di tracciamento che invia un segnale della mia posizione ogni dieci minuti e che rileva anche l’inclinazione della moto. Se succede qualcosa, lei è la prima a saperlo. Ricordo una volta in Australia, durante il Natale del 2012: stavo cercando un posto per fermarmi e giravo su me stesso. Dopo pochi minuti, mi è arrivato un messaggio da lei: ‘Ti hanno rubato la moto?’ La sua prontezza è incredibile! Un altro momento indimenticabile è stato quando ho grippato la moto in Amazzonia. In tre giorni, grazie a lei, la testata nuova è arrivata tramite DHL, dopo aver contattato l’azienda che aveva costruito la moto. È stata lei a gestire tutto, dalla logistica ai dettagli tecnici. Io non avrei mai potuto farcela senza di lei. Non si tratta solo di amore, ma di un supporto concreto e costante che rende possibili le mie avventure. Mia moglie è il mio porto sicuro, anche se spesso è dietro le quinte. Le devo molto, e non smetto mai di ringraziarla per tutto ciò che fa per me”.
In che modo i tuoi viaggi hanno influenzato la tua visione delle relazioni, sia con gli altri che con te stesso?
“Per me, tutto parte dalla serenità con mia moglie. Quando il rapporto con lei è in equilibrio, mi sento tranquillo e posso partire senza pensieri. Le relazioni con gli altri, invece, siano compagni di viaggio o persone incontrate lungo il cammino, sono uno degli aspetti più importanti del viaggio. Ho avuto la fortuna di visitare 130 paesi, incontrando centinaia di etnie e culture diverse. In ognuno di questi incontri, la mia priorità è sempre stata cercare di relazionarmi in modo autentico: farmi capire, accettare e creare un dialogo, anche solo per un momento. Con i compagni di viaggio, però, la situazione può essere diversa. Viaggiare insieme può essere meraviglioso nei primi 15-20 giorni: si è tutti più disposti a mediare e trovare compromessi. Ma, col passare del tempo, le differenze possono emergere. Se uno ama alzarsi presto per vivere le prime ore del mattino e l’altro preferisce dormire fino a tardi, o se i gusti su cosa vedere sono opposti – paesaggi, monumenti o vita notturna – queste differenze possono logorare l’entusiasmo per il viaggio. Col tempo, ho imparato a selezionare con più attenzione i miei compagni di viaggio. Ora preferisco viaggiare con persone che conosco bene, con cui so di condividere ritmi e interessi. Per esempio, presto partirò con una nuova compagna di viaggio che mi ha già ospitato in Romania e con cui ho un rapporto di lunga data. Non abbiamo mai viaggiato insieme, ma sono fiducioso che sarà un’esperienza positiva. Alla fine, viaggiare ti insegna molto sulle relazioni, ma anche su te stesso. Ti costringe a confrontarti con il tuo carattere, con i tuoi limiti e con la tua capacità di adattarti. Ogni viaggio diventa una lezione di vita, sia quando incontri persone straordinarie, sia quando devi affrontare sfide più personali, come gestire i compromessi con i tuoi compagni o la solitudine del viaggio in solitaria”.
Concludiamo qui la prima parte di questa intervista con Maurizio Pistore, un viaggiatore che ha saputo trasformare la passione per la moto in uno stile di vita ricco di significato.
La settimana prossima scopriremo un altro lato del suo percorso: l’impegno nei viaggi solidali, le collaborazioni con organizzazioni umanitarie come Emergency, e le storie di resilienza e umanità che hanno segnato i suoi itinerari.
(1 – continua)