Chi fa esperienze o sport pericolosi cerca la vita non la morte
Gli sport estremi suscitano spesso reazioni contrastanti: da una parte l’ammirazione per il coraggio e la determinazione di chi li pratica, dall’altra la critica superficiale che emerge ogni volta che un incidente fatale o un’emergenza colpisce questo mondo.
Commenti del tipo “se l’è cercata” o “era una morte annunciata” dimostrano quanto sia difficile per molti comprendere la complessità e il significato profondo di queste esperienze. C’è persino chi sostiene che sia ingiusto spendere soldi pubblici per soccorrere chi rimane bloccato in una grotta o cade in un canalone, come se queste persone non meritassero aiuto.
Ma allora, dovremmo smettere di curare chi fuma 40 sigarette al giorno o chi si ammala a causa di un consumo eccessivo di alcol? Non se la sono forse cercata anche loro?
La verità è che ogni scelta comporta un rischio, e giudicare chi affronta i propri limiti in un certo modo è una forma di ipocrisia. Chi sceglie la montagna, il mare o il cielo non lo fa per una semplice ricerca di brivido: lo fa per vivere pienamente e per scoprire cosa significa davvero superare i propri limiti.
Il rischio, negli sport estremi, non è mai fine a sé stesso. È parte integrante di una sfida più grande, che riguarda la connessione con il proprio corpo, con la natura e con il senso stesso dell’esistenza. Chi pratica queste discipline non è un incosciente, ma una persona che ha accettato l’idea che il rischio sia una componente inevitabile del progresso e della crescita.
Questo vale non solo per chi si lancia con un paracadute o affronta rapide impetuose, ma per qualsiasi atleta che decide di misurarsi con l’ignoto. La ricerca del limite, del resto, è l’essenza stessa di tutto lo sport. Ogni disciplina sportiva, dalla corsa alla scalata, porta con sé la volontà di andare oltre, di non accontentarsi, di scoprire di cosa si è capaci.
Negli sport estremi, questa ricerca si intensifica attraverso un confronto diretto con la paura e l’incertezza. Non si tratta solo di superare ostacoli fisici, ma di affrontare anche quelli mentali, costruendo forza interiore e resilienza.
Gli incidenti, purtroppo, sono una possibilità, ma questo non rende meno nobile o significativa la sfida. Al contrario, è proprio il rischio a sottolineare quanto sia straordinario il coraggio di chi decide di non fermarsi davanti alle difficoltà.
Eppure, mentre celebriamo atleti che superano record su pista o in piscina, siamo spesso pronti a giudicare con superficialità chi si spinge su una parete rocciosa o in acque profonde. È un giudizio miope, incapace di cogliere che la sfida, con o senza rischio estremo, è ciò che rende lo sport una metafora universale della vita.
Non è forse anche questa una forma di rischio? Restare fermi, immobili, schiavi della routine, non è forse estremo, in un modo tutto diverso?
Scegliere il divano, le patatine e il telecomando può sembrare sicuro, ma rappresenta una forma di passività che porta con sé un rischio altrettanto grande: quello di vivere senza mai mettersi alla prova, senza mai cercare qualcosa di più.
La vera sfida, invece, è decidere di affrontare il mondo con coraggio, di spingersi oltre la zona di comfort, di accettare che la vita, proprio come lo sport, è fatta di limiti da superare e di rischi da affrontare.
Chi pratica sport estremi non cerca la morte, ma la vita. Non sfida solo la gravità o le forze della natura, ma l’idea stessa che l’esistenza debba essere vissuta al minimo, senza intensità o passione. E lo fa con una consapevolezza profonda: quella di essere pienamente responsabile delle proprie scelte.
Forse è proprio questa consapevolezza che spaventa chi osserva da lontano, incapace di accettare che il rischio non sia una follia ma un’opportunità, una via per scoprire di cosa si è davvero capaci. Gli sport estremi ci ricordano che vivere è sempre un atto rischioso, ma è proprio questo che dà valore all’esistenza. Non si tratta di cercare il pericolo per il gusto del pericolo, ma di trasformare la paura in forza, il rischio in occasione di crescita.
E se il prezzo è qualche commento superficiale o giudicante, allora vale la pena pagarlo, perché ciò che si guadagna in termini di esperienza, di consapevolezza e di connessione con il proprio sé è inestimabile.
Meglio quindi la montagna o il divano e le patatine? La risposta è soggettiva, ma una cosa è certa: chi sceglie la montagna vive, si mette in gioco, e accetta il rischio di cadere per il privilegio di scoprire quanto in alto può arrivare. E nel farlo, merita la stessa considerazione e solidarietà che offriamo a chi compie altre scelte, anche quelle che non condividiamo. Onore quindi ai caduti del Gran Sasso Cristian Gualdi e Luca Perazzini, alla speleologa della grotta Ottavia Piana e a quanti cadono per un’idea, una passione, una visione.
Un augurio a tutti i lettori di Siena Post.