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giovedì, Novembre 21, 2024

Mps, il tempo delle chiacchiere è durato troppo

Maurizio Cenni, ex sindaco, pizzicato dagli articoli di Stefano Bisi e Ivano Zeppi, chiede di rileggere gli atti e comprendere le responsabilità prima che tutto divenga leggenda metropolitana

Recentemente sia Stefano Bisi con un suo articolo, sia Ivano Zeppi mi hanno sollecitato una serie di riflessioni parlando del libro di Alessandro Orlandini e una domanda: ma per iniziare ad elaborare il lutto relativo alla Banca Monte dei Paschi è un buon punto di partenza il libro dell’Orlandini, o non è invece una ricostruzione parziale e semplicistica che rischia di essere fuorviante?

Non sono d’accordo con Ivano e propendo per la seconda ipotesi, ragioniamoci sopra.

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Leggo sul Corriere che sarebbero sei cause concentriche alla base del disastro Antonveneta, attingendo alla Commissione di Inchiesta della Regione Toscana.

Commissione nata con la motivazione di chiarire i rapporti tra Fondazione, Banca e Regione Toscana e poi trasformata in un processo parallelo a quelli che si svolgevano nelle aree giudiziarie. Per avervi partecipato e conosciuto chi ne tirava le fila ometto ulteriori valutazioni e giudizi per carità di patria.

Le cause sarebbero dunque:

  1. Mancanza di competenze e scaltrezza di chi prese la decisione con la presunzione di averle.
  2. Il ruolo del Pd locale che influiva sulle nomine della banca e per autosufficienza si convinse che fra i suoi dirigenti e segnatamente quelli della CGIL di avere competenze necessarie a gestire la Banca.
  3. il sistema consolidato di spartizione del potere che vedeva coinvolti di fatto anche i partiti del centro destra, con un rapporto mediato da Forza Italia allora partito in grande spolvero.
  4. condizionamento del contesto senese troppo incentrato su un municipalismo che anziché difendere ha contribuito a perdere la banca
  5. La mancata vigilanza degli organi preposti Tesoro, Consob e Banca d’Italia.
  6. Infine (?!) la gravissima crisi economica legata alla bolla subprime, che  non giustifica certo, ma insomma qualcosina deve averla fatta.

Analisi più politica che storica, se non altro perché, basata su atti politici della Regione Toscana, che, inoltre, mi sembra riecheggi le posizioni politiche da sempre assunte da Alessandro Orlandini. In particolare io lo ricordo come uno dei protagonisti del “fuoco amico” (che poi tanto amico non era) prima, durante e dopo la mia prima elezione!

Ma se si vuole davvero ragionare su quella vicenda  occorre  una traccia di discussione più articolata, più impietosa se volete, ponendo per altro alcuni degli interrogativi a cui ad oggi non ho trovato risposte convincenti.

PROVE DI ELABORAZIONE DEL LUTTO SULLA BANCA

Appurato che non ci sono responsabilità penali per quanto accaduto, e quindi non ci fu dolo, occorre parlare dunque di responsabilità politiche e gestionali, ma decontestualizzando dalla fase in cui fu acquistata Antonveneta si fa solo propaganda. Bisogna ricostruire il clima generale che vedeva tutti partiti politici, Banca d’Italia, Ministeri competenti, organi di stampa specializzati e non, tutti intenti a spingere MPS verso l’idea che la banca doveva accrescersi incorporando, o meglio, fondendosi, con altre banche allo scopo di raggiungere una dimensione competitiva addirittura con i player europei, cosa che non sarebbe stata possibile neanche con la fusione delle tre maggiori banche italiane.

In realtà lo scopo reale era di diluire la quota di proprietà della Fondazione togliendo potere alla collettività locale, rendendo scalabile la banca e ridimensionando drasticamente il peso e l’appeal della città, cosa perfettamente riuscita grazie anche all’opera dei salvatori della patria che sono succeduti al binomio Mussari – Vigni e che furono salutati e incensati dagli Amministratori Locali dal 2011 in poi, come e forse più di chi aveva gestito la banca precedentemente. E che questo fosse uno degli obiettivi lo si è visto da come sono stati affrontati i temi legati, ad esempio, allo sport cittadino, ma non solo quello, nelle eccellenze che la città aveva conquistato e che con altro atteggiamento, di graduale e non drastico ridimensionamento, avrebbero avuto un atterraggio morbido e decoroso. Atteggiamento punitivo e vendicativo verso tutta la città.

Ci troviamo dunque nel periodo in cui le analisi sul sistema creditizio italiano spingono verso i processi di accorpamento, l’imperativo è razionalizzare il sistema e accrescere la propria dimensione. Un gigantesco monopoli ove spesso non si guarda alla logica industriale e molte acquisizioni impongono processi di digestione finanziaria complessi e costosi.

In questo scenario, con una economia in costante crescita, disturba particolarmente BMPS che, oltre ad avere evitato negli anni precedenti matrimoni proposti perché ritenuti svantaggiosi, rappresenta una anomalia per il fatto di essere di proprietà della Fondazione nella quale sono prevalenti i poteri di nomina degli enti locali (comune, provincia e regione).

Ovvero BMPS conserva ancora quella specificità che la Legge Amato, e la quotazione in Borsa,  non erano riuscite mai a scardinare, il controllo delle Istituzioni Locali che, pur limitandosi al momento della nomina, fino ad allora, aveva consentito una crescita costante alla Banca, certo con qualche curva pericolosa (Banca 121 ad esempio), ma mantenendosi sostanzialmente autonoma e redditizia. Quel  controllo, lo si è visto poi, dava più fastidio di ogni altra stortura giuridica, come qualcuno, da destra e da sinistra, la definiva. È il periodo in cui chi, soprattutto dalla città, si opponeva a matrimoni sconclusionati e dai contorni incerti veniva dipinto come un selvaggio che viveva ancora nel Medioevo.

In questo quadro le pressioni sia delle Autorità di Vigilanza, sia degli organi di stampa specializzati e non, sia dei partiti (destra e sinistra), erano quotidiane. Le convocazioni a Roma dei vertici di Banca e Fondazione frequenti, e gli inviti ad eliminare l’anomalia ancora più frequenti. Alla fine di “grandi operazioni” l’unica sul tappeto capace, come si sosteneva, di mettere finalmente al riparo dagli altrui appetiti la Banca, è proprio quella banca caduta in mano straniera, operante nel nord–est allora locomotiva di sviluppo, e feudo della Lega.

E così si confeziona una operazione “lampo”, ovvero senza due diligence e senza clausole di salvaguardia, e si acquista Antonveneta. Al cui annuncio tutti, ma proprio tutti, si alzano in piedi e applaudono alla capacità dei vertici bancari nostrani di condurre in porto un’operazione caldeggiata da sinistra e da destra, che riporta al patrimonio nazionale una banca caduta in mano straniera (Galan della Lega allora Governatore del Veneto penso abbia interloquito anche con il commesso alla portineria della Banca!).

Trattasi di mancanza di competenze e di scaltrezza? Sono stati i membri del CDA che hanno fatto le valutazioni tecniche o come spesso, sempre, accade non hanno invece messo il bollino ad una proposta tecnica garantita? Non credo che quella operazione sia stata confezionata con quelle caratteristiche perché si sono erroneamente ritenute le proprie competenze esaustive, e allora qualcuno ci dovrebbe finalmente spiegare cosa ha spinto a quel tipo di acquisto e come è maturata la scelta di fare una operazione tutta cash. Paura che la concorrenza soffiasse al Monte l’affare? Timore che conoscendo alcuni particolari qualcuno dalla città minasse l’operazione come era avvenuto già un paio di volte? Oppure cosa è stato a rischiare così, quali sono gli esperti che hanno spinto verso tale soluzione?

Poi, ma poi e non prima, non previsto dai sempre attenti analisti, arriva il disastro sub prime che si propaga dall’economia cartolarizzata per eccellenza a tutto il mondo, e che quindi certo non giustifica il crollo ma, paradossalmente, se non fosse avvenuto parleremmo di altro oggi, e quindi non è certa un punto ininfluente  del contesto.

L’autosufficienza del Pd locale porta a nominare persone incapaci di gestire la Banca. E qui mi casca l’asino. Fino alla situazione Antonveneta le stesse persone, con gli stessi indirizzi e le stesse provenienze, condividendo le responsabilità di governo con il centro destra, sia nella Banca che nella Fondazione, avevano prodotto una situazione opposta: la Banca cresceva, la Fondazione pure, magari tendeva ad invadere sfere di programmazione altrui (vedi settore della cultura) ma con la calma ed il ragionamento poi si trovava sempre una quadra. Quello stesso CDA approva nel marzo 2008 i risultati 2007 del Gruppo registrando  un utile netto di 1.437,6 milioni di euro, il miglior risultato della lunga storia del Gruppo Mps. Negli ultimi quattro anni l’utile è cresciuto in maniera esponenziale dai 554,8 milioni di euro del 2004 fino al risultato record registrato nel 2007 con un incremento del 160% nello stesso periodo: competenti o non competenti?

Fra l’altro, caro Ivano, sottolinei giustamente i continui riferimenti al sindacato FISAC -CGIL alla sua voracità (concordo non chiamiamola egemonia non si sa mai), che anche io trovo assurdi vista la composizione del Cda che, a memoria e potrei sbagliarmi comprendeva oltre al Presidente Mussari,  Ernesto Rabizzi, Fabio Borghi, Lucia Coccheri, Lorenzo Gorgoni, Andrea Pisaneschi, Carlo Querci, Francesco Gaetano Caltagirone, Pierluigi Stefanini e Turiddo Campaini.

E comunque il CDA della Banca non era certo un soggetto che decideva senza il supporto dei pareri tecnici, dei sindaci revisori, come accade in tutti i CDA. Giova inoltre ricordare che  il Presidente, pur se alla fine avrebbe dichiarato che quello non era il suo mestiere, veniva in quegli anni accreditato per ricoprire posti di rilievo fino ad assumere la presidenza Abi. Ora sommessamente, mi permetto di avanzare il dubbio che non sia stato proposto ed eletto presidente dell’Abi perché qualcuno del PD di Siena ha alzato il telefono e caldeggiato l’operazione, quindi significa che esisteva su tutta l’operazione di Antonveneta più che un benestare della politica romana, e non solo il PD per carità,  che ha reso possibile quella nomina. Ma il plauso si estendeva anche a tutti i soggetti non politici che avevano voce in capitolo nella nomina del Presidente dell’ABI.

Ma, caro Ivano, quello che rende davvero parziale la ricostruzione è la tesi che la affermazione della senesità e la difesa della proprietà pubblica alla fine sia stata una concausa della perdita della Banca, come direbbe qualcuno, un abbraccio soffocante, mortale addirittura. E qui si può sviluppare un ragionamento che sarebbe ora di fare senza infingimenti. Cosa si intende per municipalismo? La scarsa apertura all’esterno, la poca duttilità ad essere favorevoli alle operazioni di fusione per incorporazione prospettate nel corso degli anni, quei matrimoni tentati con BNL in cui la valutazione industriale prescindeva dal valore di incorporante e incorporato? Comune e Provincia hanno difeso il 51% fino a che era chiaro che la Banca cresceva e prosperava in autosufficienza. Se il municipalismo (per altro condiviso con la Provincia) avesse prevalso o non ci sarebbe stata Antonveneta o la Fondazione avrebbe rispettato il deliberato del Consiglio Comunale e Provinciale delle nomine fatte nel 2009 in cui entrambi Consigli chiedevano alla Fondazione non più di mantenere il 51%, ma di rimanere socio di riferimento e quindi diluire e diversificare il proprio patrimonio, basta rileggersi i documenti approvati e mi hanno sempre insegnato che per uno storico le fonti sono essenziali. Direi che è proprio la sconfitta politica di quel municipalismo la responsabilità politica vera, che non era la becera e ottusa senesità dello ”io fo come mi pare” che si dipingeva dall’esterno, ma la riaffermazione delle capacità di essere autonomi e di quella prudenza che aveva portato la Banca a crescere facendo sempre il passo secondo la lunghezza della gamba.  

E’ peraltro singolare la confusione, per alcuni strumentale, per altri dettata da superficialità, di confondere il potere, nemmeno di intervento, ma di discussione e indirizzo degli enti locali con le ingerenze dei partiti politici, accomunandole e bollandole come la causa del problema. Addirittura qualcuno tende a contrabbandare la tesi che i partiti nazionali avessero più titolo di quelli locali ad intervenire e ingerire. Non sfugge a questa confusione neanche un professionista come Sergio Rizzo che nel suo “Il Pacco: Indagine sul grande imbroglio delle banche italiane“ – Feltrinelli Editore – sostiene candidamente questa tesi, oltre ad effettuare una ricostruzione a dir poco approssimativa e, probabilmente, suggerita da qualche sirena locale.

Fatto è che quando le pecche di quel tipo di operazione vengono a galla comincia la fase critica e la revenge di chi in realtà ha sempre avuto come obiettivo primario togliere il potere agli enti locali e mi verrebbe da sorridere perché oggi coloro i quali si beavano di più della fine di tale egemonia oggi sono al governo della città e quella egemonia non la possono esercitare. O meglio in futuro lo potranno fare ma in scala molto ridotta.

E quindi vediamo chi potrebbe rispondere a domande ancora oggi inevase. Ad esempio, ma la Fondazione perché è sempre esente dal novero dei responsabili?  In realtà ha delle precise responsabilità. Intanto, come detto, nei documenti programmatici delle nomine del 2009 dei Consigli di Comune di Siena e Provincia di Siena non si parla più di mantenimento del 51% ma di azionista di riferimento. Potevi essere azionista di riferimento con percentuali di proprietà assai inferiori al 51%, quindi la decisone di quanto sottoscrivere degli aumenti di capitale deve essere imputato solo agli organi della Fondazione, che comunque non si sarebbero sentiti vincolati certo dalle posizioni dei Consigli. Giova ricordare che Comune e Provincia determinavano la maggioranza assoluta per le decisioni di tale entità attraverso i loro nominati, che comunque erano autonomi dal momento dell’insediamento in poi, e lo hanno dimostrato a più riprese anche rifiutandosi successivamente al 2013 di colloquiare con il Consiglio Comunale e con il Sindaco.

Alcuni aumenti di capitale sono stati fatti sottoscrivendo debiti, non attraverso risorse disponibili e quindi assumendosi un’alea di rischio aggiuntiva a quella della decisione in sé, e totalmente vincolata all’andamento della banca.

Quest’ultima avrebbe dovuto generare utili sufficienti al ripianamento del debito contratto. Cosa ardua alla luce della crisi dei mercati finanziari che aveva già investito il sistema globale. Successivamente ”all’era Mancini” non solo non si è prodotta alcuna inversione di tendenza ma la eccessiva fretta a vendere titoli ha determinato una depressione del titolo dopo un periodo di recupero e non è vero che nel 2013 il Tesoro imponga alla Fondazione la vendita, anzi il Tesoro informa la presidentessa di turno che la Fondazione, che ha allora il 33,5%, avendo riscattato già i 490 milioni fresh 2008, può addirittura convertire altre azioni.

Di fatto la Fondazione è scomparsa diluendosi non per scelta, ma perché travolta dai debiti e dalle scelte che ha assunto. Quindi nessuna responsabilità da parte di chi aveva tra i propri obblighi la gestione ottimale del proprio patrimonio? La colpa è solo della Banca Monte dei Paschi di Siena S.p.A. che avrebbe nascosto e falsificato i dati del proprio andamento reale, non esiste in sostanza nessun addebito, neanche “in vigilando” del proprietario formale e sostanziale? Se a questo aggiungiamo gli aumenti di capitale della Banca che però sono stati bruciati immediatamente dopo sottoscritti il quadro è completo.

I teorici di sistema e la politica, interessata a dare uno schiaffo definitivo alla prosopopea e spocchia dei “senesi ancorati al Medio Evo”, hanno sostenuto e perseguito il disegno di sbarazzarsi della Fondazione: se oggi la Fondazione fosse stata socio di riferimento quanto accaduto non sarebbe stato possibile o comunque sarebbe stato mitigato. Chi sosteneva (e ha perseguito) quella tesi puntava il dito sulla circostanza che la presenza della Fondazione impediva il libero dispiegarsi delle forze di mercato, e che la banca o cresceva o periva. E la Banca non era “appetibile” perché la Fondazione deteneva una quota azionaria che di fatto la rendeva immune da scalate ostili! Di questo parterre fanno parte tutte le forze politiche nazionali e gli Organi di Vigilanza, basta andare a rileggersi le cronache dei quotidiani nazionali e locali degli anni precedenti l’acquisto Antonveneta.

Magari avesse prevalso il municipalismo, direi che è stato clamorosamente sconfitto e il mio discorso del Mangia del 2009 parla una città che vive troppo al di sopra delle proprie possibilità, era il richiamare a fare fronte comune e cominciare a pensare a come si potevano mantenere i servizi aggiuntivi garantendo in primis le fasce sociali più deboli, ovvero assegni sociali, contributi affitti, fasce gratuite di servizi all’infanzia, ecc. mentre tutta la città continuava a cullarsi nell’idea di una di crescita perenne. Come se la crisi che aveva investito tutto il mondo lasciasse indenne, per chissà quale miracolo, la nostra città.

Alla fine è proprio avvenuto che la banca è cresciuta, ma è anche perita, e il libero dispiegarsi delle forze di mercato (senza un socio di riferimento come la Fondazione) ha contribuito a generare questa situazione.

Infine ma non ultimo come importanza: le Autorità di Vigilanza, hanno svolto il loro compito con diligenza? Sia chi doveva vigilare sulla BMPS sia chi doveva vigilare sulla Fondazione? Dagli esiti processuali emerge che la Banca d’Italia non si è vista nascondere nessuna informazione, fra l’altro autorizza l’operazione dopo circa quattro mesi, quindi con tempo sufficiente per osservare. E comunque esiste ancora qualcuno che ritiene plausibile che Banca d’Italia, Ministero del Tesoro ecc. ecc. non fossero al corrente dei dettagli dell’operazione e di cosa aveva in pancia Banca Antonveneta? Nella filiera dei (mancati) controlli sono tutti soggetti espressione o controllati dal PD? Chi interloquiva con tali centri di potere è in grado, ha il coraggio e la libertà di raccontare cosa è successo? Cosa si dicevano negli incontri romani, quali erano i patti e gli accordi, insomma quale scenario si sarebbe aperto per la Banca e, soprattutto per la città? Già, cosa dicono i verbali delle sedute della Fondazione di quel periodo? Anche se credo che siano più importanti le cose non verbalizzate.

Se non si aprono questi files, anche a costo di farsi del male siamo alle chiacchiere. Ma il tempo delle chiacchiere è stato fin troppo lungo. Intanto oggi nessuno o pochi ragionano su Banca e Fondazione dell’oggi, e anche questo comporterà un prezzo da pagare non tanto per Tizio o Caio ma per la città.

Maurizio Cenni

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