E ci vuole forza anche ad abbandonare il diligente mulo ormai rimasto l’unico amico
Sesta e conclusiva puntata di una “Vera Avventura nel Regno di Lo”, racconto di Luca Gentili. Nella prima delle sei puntate, cinque settimane fa, lasciammo il protagonista, Dharan, finalmente giunto a Kathmandu, all’inizio della sua ricerca del “luogo dove il vento racconta storie dimenticate”, in quella di quattro settimane fa lo abbiamo visto scegliere come compagno di viaggio, Arman, un uomo dai mille segreti. Tre settimane fa, nella terza parte del racconto, scavalca monti e attraversa fiumi a dorso di mulo verso la città di Pokhara in cui finalmente fa il suo ingresso… Due settimane orsono ha continuato a inerpicarsi sull’Himalaya scoprendo nuove stranezze, mentre la settimana scorsa ha varcato i confini del Regno ormai succube del richiamo della montagna. Ora una veloce ma significativa conclusione…
६ Chha – (sei) Lo Manthang la Thubten Shedrup Dhagyeling e lo studio della compassione
Al mattino Arman era scomparso, sparito come le faville nel cielo della notte. Dopo tanti giorni, ritrovarmi da solo a riordinare le cose per la partenza mi sembrava impossibile.
La padrona di casa aveva messo in un angolo tutto quello che Arman non aveva portato con sé. Avrei voluto chiederle chi fosse Arman per lei: un figlio, un amico o altro, ma la barriera linguistica rendeva difficile ogni parola, e forse non era poi così importante.
Lui mi aveva condotto fin qui, forse sin dall’inizio sapeva che sarebbe rimasto tra la sua gente o forse il cammino verso queste montagne lo aveva convinto a restare. Mi piace pensare che, dopo aver sperimentato tutte le strade della vita, ora avesse deciso di ritornare sui suoi passi per ritrovare l’origine della sua storia.
Salutata la gentilissima signora, me ne andai con il mulo. Ormai non lo tenevo più per la cavezza, mi seguiva come un piccolo cane. Aveva ancora il suo buffo modo di fermarsi ad annusare l’aria e ricordai allora le parole di Arman: “Ha più esperienza di noi, fidati di lui quando noi ci saremo persi”. Ricordo bene la sonora risata che fece.
La giornata non fu sicuramente allegra; a tratti provavo davvero a seguire il mulo, e sembrava sapesse proprio dove andare. Al tramonto giunsi al monastero, posto su un lato delle quattro case che definivano il paese di Charang. Dominava una profonda valle, i pioppi avevano il colore dell’oro, l’autunno stava per arrivare, l’acqua scorreva nei piccoli canali e io ero cosciente che non sarei potuto tornare indietro se non a primavera inoltrata.
Entrato nel monastero Thubten Shedrup Dhagyeling, mi vennero incontro una decina di bambini e ragazzi giovani, vestiti con le tradizionali vesti monastiche color zafferano. La testa rasata come piccoli Buddha, correvano nella corte interna del monastero. Le famiglie mandavano almeno uno dei loro figli in questi luoghi per avere un’istruzione e solo da adulti avrebbero deciso se proseguire la loro vita monastica. Giocai con loro e la tristezza del giorno si sciolse nei loro sorrisi.
Lo Manthang
Il cammino verso Lo Manthang era stato lungo e faticoso, ma al raggiungere l’antica capitale del regno il mio cuore si riempì di emozioni contrastanti. Mi trovavo in un luogo che sembrava sospeso nel tempo, dove ogni pietra e ogni volto raccontavano storie di un passato remoto. Lì, in quella città dalle mura rosse, mi sentii come un esploratore giunto alla fine del mondo.
Le sue piazze polverose erano colme di vita semplice. Le stupe, piccole e grandi, riempivano un intero settore della piazza principale. Adornate con file di preghiere colorate, sembravano custodi silenziose del tempo, mentre la gente del villaggio vi passava accanto senza fretta, intenti nelle proprie occupazioni quotidiane. Le piazze erano occupate da strati di sterco di yak messi a seccare.
Fu in un angolo tranquillo della città che ebbi un incontro del tutto inatteso. Un uomo, circondato da poche persone, avanzava tra le vie con passo sicuro. Portava un mantello scuro ed era accompagnato da alcuni dignitari. Mi accorsi solo dopo qualche istante che era il Re, il sovrano di queste terre remote. Non c’era pomposità, nulla che facesse pensare a una regalità ostentata. Mi colpì la sua semplicità e l’aura di rispetto che emanava naturalmente. Lui mi guardò e con un breve cenno del capo mi salutò. Rimasi colpito dalla naturalezza del momento, dall’incontro fortuito che sembrava voler suggellare l’arrivo alla destinazione tanto desiderata.
Non c’erano i colori, la vitalità e l’arte di Kathmandu, né la piacevole confusione delle carovane appena arrivate a Pokhara. La stagione era giunta alla fine e tutti si preparavano al lungo inverno.
Avevo con me una lettera del mio pandit (6), e con questa mi presentai al monastero, sicuro che mi avrebbero accolto. Qui avrei proseguito gli studi e il mio percorso.
Scaricate le poche cose, mi separai dal povero mulo che mi aveva accompagnato fin quassù. Non avrei saputo come custodirlo, non potevo comprargli fieno e l’orzo di cui aveva bisogno. Mi ero affezionato all’animale. Piano piano mi stavo nuovamente liberando di tutto ed ero rimasto solo con i pochi abiti che avevo indosso.
Poco lontano dall’abitato mi avevano parlato di una piccola sorgente di acqua calda, a pochi chilometri dalle sorgenti del sacro Gandaki. Decisi di andare, forse in cerca di qualcosa che non riuscivo ancora a definire. Arrivai alla sorgente in un pomeriggio di sole pallido, il vento soffiava leggero e il cielo era limpido, attraversato da qualche nuvola bianca. Le acque calde sgorgavano tranquille dalla roccia, formando una piccola pozza. Mi avvicinai e mi sedetti sul bordo, togliendo lentamente le scarpe e immergendo i piedi nell’acqua. Il calore mi avvolse, e chiusi gli occhi per un istante.
In quelle acque, sentii il peso del viaggio affievolirsi. Le fatiche, i dubbi, il dolore per la separazione da Arman sembravano diluirsi nell’acqua, come se il calore potesse sciogliere ogni emozione negativa. Mi resi conto che, nonostante tutto, il viaggio era stato una ricerca non solo di luoghi, ma anche di me stesso. Arman aveva scelto la sua strada ed io dovevo trovare la mia. Il turbamento per la sua assenza rimaneva, ma forse ora potevo accettarlo, come parte del cammino.
Aprii gli occhi e osservai il sole riflettersi sulla superficie dell’acqua, creando piccoli bagliori dorati. Era il momento di lasciare andare, di lasciare che il flusso della vita continuasse. Quelle acque calde, così vicine alle sorgenti del sacro Gandaki, sembravano voler sussurrare che tutto fa parte di un ciclo, che ogni incontro e ogni separazione hanno un loro significato.
Mi alzai lentamente, lasciando che l’acqua mi scivolasse via dai piedi. Era tempo di continuare il viaggio, qualunque fosse la direzione che la mia anima avrebbe scelto. Lo Manthang, con le sue mura antiche, sarebbe rimasto lì, custode di tutti i viaggiatori che, come me, avevano cercato qualcosa nelle sue valli polverose. E Arman, anche se lontano, sarebbe sempre stato una parte di me, un compagno di viaggio il cui spirito avrebbe continuato a camminare accanto al mio.
(6 – fine – una storia di Luca Gentili)