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lunedì, Maggio 12, 2025

Ögii Nuur, il lago del dono

Le avventure e le disavventure di un viaggiatore

Quella che vi racconterò oggi non si può annoverare tra le disavventure come quella dei bagagli a Ulan Bator, ma più tra le curiosità di viaggio, in luoghi dove le persone sono ancora considerate ospiti, e l’arrivo di uno straniero è visto come un piccolo evento.

La mia intenzione di oggi era di arrivare a Ögii Nuur. In mongolo (Өгий нуур) significa letteralmente “lago Ögii”, ma il suo nome ha anche un significato poetico: “il lago del dono”. La leggenda vuole che le sue limpidissime acque siano curative.

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“Chi beve acqua pura, dimentica gli antenati. Chi beve tè salato, li tiene nel cuore”.

Mi sono svegliato sotto un cielo di piombo. Sigillo la tuta, accendo il motore. La piccola Shineray non tradisce: borbotta un pochino e poi parte, come insensibile alla pioggia caduta stanotte. Le ruote poggiano su una sabbia ocra giallina, compatta, che ricopre la traccia. Esco dal Khustai Nuruu National Park e incrocio una lunga strisciata di asfalto: la chiamano Millennium Road. Un nome pomposo per una via piena di buche.

Non so se si riferisca proprio a questa strada o al progetto più ampio che dovrebbe attraversare tutta la Mongolia in senso longitudinale.

La moto scelta per questo viaggio, una Shineray di piccola cilindrata, ha solo 11 cavalli e una velocità ridicola: su asfalto raggiunge a malapena i novanta. Ma è la moto che usano i pastori, quelli che hanno abbandonato i cavalli per seguire le greggi. Ha una sua poesia.
E un grande vantaggio: la bassa velocità ti permette di osservare attentamente il paesaggio. Lo svantaggio? È a misura di mongolo, che notoriamente non è un gigante: ho le ginocchia che sfiorano il manubrio e guido ingobbito come un vecchio di ottant’anni.

Quando sono arrivato in Mongolia, mi ero fatto un’idea sbagliata della steppa. Pensavo fosse un territorio fitto di cespugli. Potete immaginare la sorpresa nello scoprire che invece galleggiavo in un immenso prato d’erba.

E la steppa col passare dei chilometri muta. A volte si tinge di fiori gialli, poi viola. Quando non ha nulla da offrire, è di un verde smeraldo profondo. In lontananza sfuma nel bianco di piccoli fiori e profuma, di un odore forte, incredibile, che punge l’olfatto e sovrasta ogni altro odore.

Mucche, capre, cavalli presidiano questa illimitata pianura, sullo sfondo di montagne azzurrine che si accavallano come quinte di un teatro. Con il mio compagno di viaggio ci fermiamo presso un gruppo di case. In questi luoghi è un evento. Incontrare un negozio è un miracolo.

La piccola struttura, dal tetto appuntito, ha uno sghimbescio cartello in cirillico indecifrabile.
Ma l’inconfondibile foto di una zuppa ci fa capire che forse qui si può trovare qualcosa da mangiare.

Entriamo. Una minuscola porta conduce in un’angusta stanzetta dal soffitto basso. Quattro tavoli coperti da tovaglie rosse. Alcuni avventori sollevano il capo, ci scrutano seri, poi tornano immersi nel brodo di un momo fumante. L’odore di montone è forte, ti sale nel naso. Un bambino sorride. Da dietro la porta, una signora si affanna in cucina tra consunte pentole di alluminio contorte. Accanto al lavandino, una pila di piatti di un colore incerto. Posate storte alloggiano alla rinfusa in una cassa di legno.

Non sono rimasto scioccato. Non ho pensato “che schifo” o “come si fa a mangiare qui”. Era un pensiero lontano, non mi ha nemmeno sfiorato. Anzi, mi è parso un onore sedersi su quelle panche consunte di vita.

Non ho fatto in tempo a sedermi che già avevo davanti una tazza fumante di suutei tsai: tè al burro salato, uno dei principali gesti di accoglienza in Mongolia. È considerato scortese rifiutarlo.

La tradizione vuole che si prepari con un tè nero molto forte, bollito a lungo, a cui si aggiungono latte e burro di yak, dal sapore robusto e dall’odore pungente, e poi si sala generosamente. Non è solo un gesto di cortesia: è un vero rito.

Il sale, in Mongolia, è simbolo di vita, forza e protezione. Era raro, prezioso, indispensabile. Aggiungerlo alle bevande significava onorare gli spiriti della natura e proteggere la propria famiglia. Anche il tè usato, ormai quasi solo nelle campagne, è particolare: il tsainy shakmal, il “mattone di tè”, è parte fondamentale di questa tradizione.

Si usano foglie grosse, a volte anche steli e parti meno pregiate. Le foglie vengono cotte a vapore e poi pressate in stampi di legno fino a diventare durissime. Infine, si lasciano asciugare all’aria o vicino ai focolari. Originariamente il tè veniva pressato per facilitarne il trasporto lungo le rotte carovaniere, come quelle della Via della Seta. Era più semplice trasportare mattoni solidi che foglie sciolte.

Un mattone di tè poteva essere spezzato: un piccolo pezzo bastava per più litri di tè.
E non era solo bevanda: era anche moneta. In Mongolia, Tibet e Cina rurale, fino a pochi secoli fa, si poteva pagare cavalli, stoffe, pecore con mattoni di tè.

Ecco perché mi sentivo onorato. Stavo assaporando una tradizione. Il forte odore misto a fumo, a umanità, non aveva più importanza. Chissà quanti, dopo di me, avrebbero apprezzato questa ospitalità. Visto che l’odore di yak non bastava, ho preso anche dei momo ripieni di montone.

La signora, per lavare le stoviglie, usava l’acqua da un bidone: la stessa da cui una mucca aveva appena bevuto. La pioggia aveva appena mollato la presa. Eravamo stati tre ore in ammollo. Ora un pallido sole era riapparso, proprio mentre lasciavamo l’asfalto e tornavamo a percorrere piste disperse nel nulla: tracce appena incise nel verde profondo.

Poi improvvisamente il lago ci appare. I prati punteggiati di tende bianche si specchiano al sole. Il cielo, improvvisamente sereno e trasparente, si confonde con l’acqua ferma del lago. Ho lo sguardo perso nel vuoto.

La moto avanza piano, ascolto la ghiaia schizzare via da sotto le ruote. Alberto mi sveglia da una specie di torpore passando veloce accanto a me sulla spiaggia. Un sogno. Ripenso a Kerouac, a Easy Rider. Sorrido.

Una famiglia sosta sulla stretta striscia di ghiaia grigina, accanto a un cavallo. Finalmente il campo: un ordinato complesso di una ventina di gher. Nel mezzo, una baracca di legno.

Seduti sulle panche cotte dal sole, gli abiti ad asciugare, una birra leggera per compagna, ci godiamo il tramonto e gli uccelli che volano alti. Ögii Nuur (Өгий нуур), il lago del dono. Solo seduto, con lo sguardo perso su un orizzonte che sembra non avere fine, capisci davvero perché queste acque curano ogni ferita.

La prossima settimana, un’altra storia. Spero che anche questa vi sia piaciuta. Se tutto è andato bene allora nulla è andato bene! Stay Wild Stay Shanti.

(2 – continua)

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