“Oltre il mito: abilità e ambiente determinano il risultato.”
Paolo, nell’ultimo articolo del tuo blog https://paolobenini.com/la-fumosa-questione-del-talento/ definisci il talento una “icona pigra”. Cosa intendi con questa espressione?
Intendo che la parola “talento” viene spesso usata per semplificare un fenomeno complesso. È un’etichetta che sembra spiegare tutto, ma in realtà non spiega niente e maschera il fatto che non sappiamo davvero cosa lo generi. Dire “è talentuoso” è comodo, lo dice chi non sa e non capisce i processi che stanno dietro.
Quali sono, secondo te, gli elementi che compongono il talento?
Non esiste un solo elemento, ma un intreccio di fattori, compreso la sempre dottovalutata casualita’. Ci sono forse predisposizioni naturali primitive, certo, ma contano anche capacità attentive, immaginazione, resilienza, motivazione che sono tutte soggette a dviluppo. E, soprattutto, l’ambiente. Senza un contesto favorevole, queste qualità rischiano di restare potenziali inespresse.
Citi Steve Jobs come esempio. Perché proprio lui?
Perché è il paradigma perfetto. Jobs aveva capacità straordinarie e un percorso di sviluppo molto complesso, ma senza aver vissuto nella Silicon Valley degli anni Settanta, con il suo ecosistema di università, ingegneri e imprenditori, non sarebbe mai diventato ciò che conosciamo. Il contesto non è un dettaglio: è parte integrante della storia del talento.
Quindi credi che il mito del “talento innato” sia da sfatare?
Assolutamente sì. Parlare di talento come dono mistico è fuorviante. Non è qualcosa che cade dal cielo: è il risultato di predisposizioni che trovano terreno fertile in certe condizioni. Un musicista nato in un villaggio isolato, senza strumenti né maestri, difficilmente potrà sviluppare il suo talento, anche se ne ha le basi.
Nell’articolo parli anche di un altro equivoco: talento e fama. Ci spieghi meglio?
Oggi si tende a credere che essere talentuosi significhi diventare famosi. Ma non è così. Ci sono persone con competenze straordinarie che restano sconosciute ai più. La cultura attuale, invece, misura il talento in termini di visibilità, come se non esistesse altro. È una deformazione culturale pericolosa.
In chiusura scrivi che “il cosiddetto talento assoluto è una scorciatoia semantica”. Perché usi questa definizione?
Perché l’idea di talento assoluto è una semplificazione che ci evita di affrontare la complessità. Serve a riempire un vuoto di conoscenza: non sappiamo spiegare certi risultati, allora li attribuiamo a una dote misteriosa. È più comodo che tentare di analizzare davvero i processi che li generano.
Se dovessi dare un consiglio a chi cerca di “scoprire il proprio talento”, cosa diresti?
Direi di smettere di cercare il talento come un’entità nascosta e di concentrarsi sul coltivare curiosità, resilienza, capacità di apprendere. E, soprattutto, di cercare contesti stimolanti. Perché senza ambiente e opportunità, anche il seme migliore resta nel cassetto.